La quarantena ha costretto noi tutti a rivedere l’immagine del nostro corpo. Forse non sarà subito. Non sarà tutto in una volta. Ma dovremo riscoprire l’ovvio, lo scontato e l’ordinario.
LE FRECCE DI EROS. L’amore è certamente una forma di follia. Una follia che i greci credevano venisse dispensata da Eros, dio dell’amore, grazie alle frecce scoccate dal suo arco: un’immagine meravigliosa e, allo stesso tempo, terribile. Altro che essere toccati, l’amore arriva come una freccia che si conficca nella carne del povero uomo, o della povera donna, scelto dalla divinità. Anche questa è una variante. Non un tocco in superficie, una carezza, uno schiaffo, se vogliamo un pugno, ma un superamento del limite segnato dalla pelle. La malattia d’amore arriva fino alle viscere, nella carne viva. E ci cambia, ci stravolge. Avete mai visto una coppia di innamorati all’inizio della follia, quando eros si è appena dileguato e nell’aria resta il sapore dolciastro di rose e di viole e di violini? Ecco, gli innamorati, poiché matti, non fanno altro che guardarsi negli occhi, stare attaccati, stringersi, baciarsi, accarezzarsi, e poi ancora tenersi nella mano, sfiorarsi le guance, lanciarsi le braccia intorno alle spalle come sciarpe. A una coscienza vigile, attenta alla misura e alla distanza, anche e soprattutto fisica, tutto questo attaccamento appare patetico, insensato, puerile – e qui l’elenco degli aggettivi dispregiativi potrebbe allungarsi all’infinito. Perché sono proprio così gli innamorati, hanno bisogno di con-fondere il confine del loro corpo con quello dell’altro, sentire fino a che punto ci si può compenetrare, sfiorare oltre la pelle – e quello che sto per scrivere, sì, è patetico, melodrammatico, romantico e tremendamente umano, e fa schifo – oltre le labbra, sfiorare l’anima dell’altro, sentire di essere nello stesso tempo e nello stesso spazio, uniti al di là del confine fisico dei corpi. Non è così che facciamo l’amore? Non è così che cerchiamo il piacere insieme? Non è così? È così. E quando siamo innamorati gli innamorati non ci fanno così schifo. Non c’è nulla che faccia schifo dell’altro e nell’altro.
La sua saliva, il suo odore, le sue mani e il profumo dei capelli, la curva di un seno, e la morbidezza di una gamba, i piedi, le mani. Quando scocca, per Eros o per caso, o per la stramaledetta fortuna, l’amore è una sinfonia di corpi. E non c’è confine possibile, non c’è separazione che non coincida con un dolore, col dolore di essere in due, quando si vuole essere, anche per pochi, eterni istanti uno solo. E come potrà mai l’amore di Eros convivere con una mascherina? Come potrà lo sconosciuto, l’altro che non sapevo esistesse, che sembra essere stato creato per me, o insieme a me, diventare mio senza toccarlo in ogni angolo del corpo, un millimetro alla volta? Gli innamorati sanno cosa vuol dire baciare le ciglia che dormono. Sanno che cosa vuol dire un abbraccio al mattino. Il bacio desiderato, quello inatteso, quello strappato per gioco, quello tenuto a lungo per trattenerne il sapore. Perfino il bacio sognato, toccato di notte, come un vuoto sulle labbra. Tutto questo fa schifo. Fa schifo e fa stupendamente, superbamente, umanamente schifo. E se ne avremo schifo davvero? Se non sarà lo schifo dell’invidia, lo schifo della buona coscienza, lo schifo di chi spera di fare schifo a sua volta? Se sarà lo schifo della paura, del contagio, del silenzio forzato, dei corpi che non possono sfiorarsi? Ma certo potremo vederci via internet, per strada, da un balcone all’altro. Potremo parlarci, scriverci, sospirare insieme. Ma poi? Poi il corpo e il tatto vorranno la loro parte. E finiremo per essere di nuovo schifosamente umani, tattili, con tutti i due metri quadri di pelle che siamo – e non c’è niente che somigli all’anima più della pelle, altro che il cuore.
IL TOCCO MAGICO. Sileno era un satiro, mezzo uomo e mezzo animale, considerato pericoloso e saggio allo stesso tempo. Prima che Dioniso diventasse il dio del vino e dell’ebbrezza era lui il protettore delle vigne e della vinificazione. Forse per questo motivo i due furono grandi amici e il primo, Sileno, accettò di diventare mentore di Dioniso e di insegnargli tutto ciò che sapeva. Un giorno Sileno si allontanò nel bosco ubriaco, perse la strada e vi rimase a vagabondare per giorni. Trovato in queste condizioni da due contadini fu portato a corte di Re Mida, sovrano della Frigia, un uomo gentile e magnanimo che lo ospitò nella sua dimora per dieci e giorni dieci notti, preoccupandosi di rimetterlo in sesto e, soprattutto, di fornirgli giorno e notte il tanto amato vino. Per parte sua, Sileno ricambiò tanta ospitalità cantando e intrattenendo il re con i suoi racconti e i suoi vaticini, spesso estremamente ottimisti. Per esempio, alla domanda del Re su quale fosse la cosa più desiderabile per un uomo, quell’allegrone di Sileno risponde: “Non essere nato, non essere, non essere niente”.
Sarà anche per trattenere l’allegria che Re Mida l’undicesimo giorno decise di riportare personalmente Sileno da Dioniso che, intanto, lo aspettava nella patria comune, la Lidia. Quando Dioniso rivide di nuovo il suo anziano maestro pensò di ringraziare Re Mida offrendogli la possibilità di ricevere qualunque dono desiderasse. Re Mida, pensando di essere un genio della truffa, chiese a Dioniso di avere il dono di trasformare in oro tutto quello che toccava. Dioniso, che probabilmente riconobbe nel genio il solito imbecille, accettò e andò a festeggiare con Sileno con un paio di botti e mezzo l’amico ritrovato. Re Mida, tornando a casa, intanto metteva alla prova il suo dono. Toccava una sedia e, toh, diventava d’oro. Un cuscino e si trasformava in oro. Una scarpa e subito diventava dorata. Per qualche tempo Re Mida si sentì veramente un genio pazzesco. Un tempo molto preciso, che coincise con l’arrivo della fame e della sete. Mida prese una mela, provò a morderla ma perse subito due incisivi. Poi prese un pane, lo diede a se stesso e non poté dividerlo con nessun altro, tanto era duro l’oro in cui s’era trasformato. E poi prese del vino, lo porto alla bocca, e vide che nel bicchiere non c’era niente altro che oro, oro solido in un bicchiere di oro massiccio. Così Re Mida tornò in Lidia, implorò Dioniso di liberarlo dalla fortuna che aveva coì tanto desiderato e quello, mosso a pietà, forse in grazia di una decina di coppe di vino, lo liberò e lo rispedì in Frigia.
Questa storia ha due morali. La prima, e la più semplice, è che non si può ingannare la divinità. Se provi a fare il furbo con un dio, gli effetti della cupidigia, o di qualunque altra forma di superbia, saranno peggiori di quanto si possa immaginare, anche se all’inizio le cose potrebbero sembrare diverse. La seconda, invece, riguarda il potere del tocco. L’ossessione di trasformare il vile metallo in oro accomuna molti, gli alchimisti, per esempio, Re Mida e tutti i re Mida senza regno e senza trono, gli artisti anche, che vorrebbero sempre scrivere la melodia del secolo, il romanzo del secolo o realizzare l’opera delle opere delle opere. Però gli alchimisti e gli artisti sono migliori di Re Mida. E non perché siano in grado di gestire il potere del tocco né perché riescano a trasformare tutto quello che toccano in oro. Ma solamente perché pretendono di utilizzare tale potere nell’esclusivo esercizio del proprio dovere di fronte a un’altra divinità: l’arte stessa. L’arte reale, per quanto riguarda gli alchimisti, e le singole arti per i figli dispersi delle Muse. E gli uomini? E i Re Mida senza patria e senza trono? Noi tutti? Noi dobbiamo sperare di non dover convivere mai con la fortuna di Re Mida. Basterebbe rovesciare tutto per comprendere quale sia il dono migliore per l’uomo. Non quello di non essere mai nato, come dice Sileno, né quello di trasformare tutto in oro, come concede Dioniso, ma di considerare tutto e tutti, ogni cosa e ogni spiga, tutto ciò che tocchiamo, già oro. Ai Re Mida che siamo basterebbe il dono di non trasformare in cenere l’oro che tocchiamo.
Illustrazione di Stefania Cozzoli per La Notizia