In mancanza di evidenze ospedaliere, di reali e cogenti aree di rischio, e soverchiati, invece, da un autentico disastro socio-economico che non sembra preoccupare più di tanto, una vera casta tecno-politica di farabutti con cravatta e pochette ci sta condannando alla paranoia eterna e a uno spettro-Covid che va a duello ormai con ufologia e film di Spielberg. In nome di carriere politiche da conservare, personalismi smaccati e di egolatrie rancide e pericolosissime a reti unificate. La dimostrazione che non esistono oggetti sociologici puri. Che, cioè, siano fotografabili e indagabili nella loro nuda positività, che siano auto-legiferanti, “ovvi”, coglibili, e non piuttosto intramati in rapporti di forza, euristiche di appoggio, fascinazioni mediatiche, condizionamenti di diverso calibro da parte di soggetti pubblici e privati.
Non a caso Susan Sontag nel suo bellissimo Davanti al dolore degli altri (Mondadori, pagg. 124, euro 9), quando definiva il vilipendio ludico ed estetizzato adoperato dalle immagini, usava termini come “comporre”, “trasformare”, “oggettivizzare”, “abbellire”, “stemperare”, “forgiare”, “inquadrare”, “escludere”. Perciò, se abbandoniamo l’ingenuo idealismo della verità come rasatura del “falso”, e scardinamento di tutto quanto ci impedisce di attingere nella sua equorea limpidezza ciò che è, senza infingimenti e senza depistaggi, allora entriamo nel giusto territorio della verità come gestazione di “finzione” condivisa, all’interno della quale ci si contende il quadrante formato dal binomio razionalità/democraticità del decidere, e da quello della violazione/prosecuzione del racconto generale, considerato dai suoi manovratori o iniziatori inoppugnabile, insindacabile, irrecusabile. Come quello associabile al nefasto binomio Conte&Covid, che sa di Condom sociale.
La Sontag nota come lo shock visivo di una brutta storia, una strage, un crimine, un contagio, perché no, continuamente tele-sondato e rappresentato, possa diventare un’emozione consumata con rabbia e frustrazione, ma anche con innocenza e totale auto-esautoramento da ogni responsabilità, sicché “in un mondo saturo, anzi ipersaturo di immagini, diminuisce l’impatto di quelle che dovrebbero avere importanza: diventiamo insensibili. Alla fine, tali immagini non fanno che renderci meno capaci di partecipare, di avvertire il pungolo della coscienza”, e tutto si trasfigura, la prossimità arrischiata cede il passo a “un interesse pruriginoso”. Ma è tragicamente e lucidamente filosofica quando addita l’operazione di maquillage mediatico dominante: “Designare un inferno non significa, ovviamente, dirci come liberare la gente da quell’inferno, come moderare le fiamme”. Ma che brucino, nel frattempo, nel termovalorizzatore di un’informazione oscena, tutti i viral-terrorizzati.