L’esportazione di armi italiane cresce: negli ultimi 5 anni, 44 miliardi di euro di autorizzazioni, pari a quelle dei 15 anni precedenti (il 45% del totale di tre decenni). Kuwait, Qatar, Regno Unito e Germania in testa alla classifica degli ultimi 5 anni. Le armi italiane arrivano alla coalizione di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, attiva nel conflitto nello Yemen; e verso destinazioni, per così dire “problematiche” come Turchia, Egitto, Turkmenistan, fra gli altri. Oltre 100 miliardi, spesi in armamenti, a Stati fuori da Ue e Nato.
È il 1990 quando nasce la legge che regolamenta l’autorizzazione alle esportazioni di armi. Tutto nasce dopo alcuni scandali bancari sul commercio di armi, il più eclatante riguardante una filiale dell’allora Bnl negli Usa, ad Atlanta, per la vendita illegale di armi all’Iraq di Saddam Hussein, durante la prima guerra del Golfo. La legge (qui il testo), denominata “Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” prevede che ogni anno i diversi ministeri interessati, preparino una relazione, da presentare al Parlamento entro il 31 marzo, per le operazioni relative all’anno precedente, in materia di importazione ed esportazione dei sistemi di armamento da e per l’Italia.
La norma, tra le altre cose, impedisce che armi italiane vengano vendute a Paesi in guerra e che violano i diritti umani. Una legge avanzata e innovativa, dunque, nei principi e nei meccanismi ma che sostengono la Rete Disarmo e Rete della Pace, “ha perso molta della propria efficacia, per le modifiche e le applicazioni non corrette”.
IL REPORT. Durante i 30 anni di applicazione della Legge 185/90, sono state autorizzate esportazioni dall’Italia per materiali d’armamento per un valore di 97,75 miliardi di euro (con il ricalcolo a valori costanti 2019 diventano 109,67 miliardi di euro). Negli ultimi 10 anni con una impennata di export, tra il 2006 e il 2010, poi attenuatosi con la crisi finanziaria globale. Dopo un paio di decenni di applicazione rigorosa, i Governi italiani hanno iniziato ad avere come obiettivo il sostegno all’export militare e non il suo controllo. Tra il 2015 e il 2019, le autorizzazioni sono state di poco superiori a quelle totali dei quindici anni precedenti (44 miliardi contro 43,5 e situazione di sostanziale pareggio anche considerando valori costanti al 2019).
Gli ultimi cinque anni equivalgano, da soli, al 45% del trentennio di export militare normato dalla 185/90. Gli ultimi cinque anni hanno poi accentuato la tendenza ad esportare al di fuori delle principali alleanze politico-militari, cioè verso Paesi non appartenenti all’UE o alla Nato: il 56%, cioè 24,8 miliardi contro 19,2 miliardi. In tutto il corso di applicazione della legge, più della metà dell’export è stato autorizzato al di fuori della naturale area di azione internazionale dell’Italia: nonostante il testo della norma dica che le esportazioni di armamenti “devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia”. Con il governo Conte, però, c’è stato un lieve cambio di marcia grazie soprattutto all’embargo per la vendita di bombe e missili ad esempio alla coalizione saudita impegnata in una guerra, condannata da tutte le organizzazioni internazionali, in Yemen (leggi l’articolo).