La notizia dei 9 arresti da parte dei Carabinieri nell’ambito dell’operazione “Rinascimento” piomba in casa Roma come un fulmine a ciel sereno. Alle 11.30 circa è il direttore generale della società, Mauro Baldissoni, il primo a parlare. “Non sappiamo ancora niente, lo abbiamo appreso questa mattina dalla agenzie”, dice spaesato mentre arriva all’assemblea della Lega calcio a Milano. Quando il progetto per la realizzazione dello stadio era arrivato ormai a un passo dall’approvazione finale, propedeutica alla posa della prima pietra, il ciclone dell’inchiesta giudiziaria della Procura capitolina rischia di far saltare il banco. Perché se è vero, come ha chiarito il procuratore aggiunto, Paolo Ielo, che “la Roma non c’entra nulla”, e nonostante le rassicurazioni della sindaca Virginia Raggi (“aspettiamo di leggere le carte, se è tutto regolare spero che il progetto possa andare avanti”), le probabilità che alla fine il Campidoglio decida di bloccare tutto, o comunque di allungare i tempi a dismisura, sono altissime. Con conseguenze chiare, a cominciare – manco a dirlo – dall’addio del presidente giallorosso, James Pallotta. L’imprenditore statunitense, che ha messo la costruzione dell’impianto che dovrebbe sorgere nell’area dell’ex ippodromo di Tor di Valle in cima alla lista dei desiderata, è stato categorico. “Cosa succede se l’inchiesta fermerà il progetto? Vorrà dire che verrete a trovarmi a Boston…”, ha risposto ai cronisti che lo aspettavano fuori dall’albergo romano nel quale risiede in questi giorni di vacanza.
Prima di gettare un po’ d’acqua sul fuoco: “La Roma non fatto nulla di male, siamo stati trasparenti: non vedo perché il progetto stadio si debba fermare, tutti lo vogliono e si deve andare avanti. Risolveremo tutto”. E rispondere con una battuta a una domanda su Parnasi: “Se l’ho sentito? Non credo che in cella si possano usare i telefonini”.
Ma riavvolgiamo il nastro. Ci sono voluti tre anni e mezzo, due sindaci, due progetti e altrettante conferenze dei servizi per arrivare a fine 2017 al via libera finale in conferenza dei servizi dell’iter autorizzativo. Nel maggio 2014, quando è stata svelata la prima versione del progetto che prevedeva di realizzare un milione di metri cubi per costruire uno stadio disegnato da Dan Meis e un business park composto da tre torri dell’archistar Daniel Liberskind, in Campidoglio c’era ancora Ignazio Marino (Pd). A febbraio 2017, la giunta Raggi ha voluto modificare il masterplan, dimezzando – in accordo con il club e il costruttore – le cubature del business park ma anche tagliando fondi privati destinati a pagare opere pubbliche a servizio della struttura. La mediazione, portata avanti, tra gli altri, da Luca Lanzalone (fra gli arrestati) come consulente, ha visto l’eliminazione delle torri e la loro trasformazione in un complesso di una quindicina di palazzine. Alla fine del lavoro, in Campidoglio è stato prodotto un masterplan che prevede un’arena da 55mila posti, un business park con uffici, una centralità commerciale e un parco fluviale con diversi accessi ciclopedonali. L’ultimo passaggio per arrivare all’avvio dei cantieri è, o forse a questo punto sarebbe meglio dire sarebbe, l’approvazione della variante urbanistica in Assemblea Capitolina: la calendarizzazione era attesa per luglio prima di un ultimo via libera della giunta regionale.
Uno stop definitivo manderebbe in fumo i milioni spesi finora scrivendo la parola fine su un business che avrebbe portato al club indubbi vantaggi economici. In assenza dei ricavi da stadio, infatti, i conti di Trigoria continuerebbero a dipendere esclusivamente dalle entrate provenienti dall’Uefa (legate ai risultati della squadra in Champions League), dai diritti tivvù e dalle plusvalenze dei calciatori in rosa. In sostanza, la Roma resterebbe ferma al palo dopo aver immaginato di potersela giocare ad armi pari non solo con la Juventus, ma anche con le altre grandi società d’Europa. E resterebbe a giocare all’Olimpico continuando a pagare l’affitto al Coni. Staremo a vedere.