Sul piano locale, manco a dirlo, la storia è una clava contro gli avversari politici. Stiamo parlando del più grave furto informatico ai danni di un ente pubblico, 522 gigabyte di dati della Asl di L’Aquila che sono stati comodamente trafugati con le cartelle cliniche di migliaia di pazienti che per giorni non hanno ricevuto nessun avviso, nessuna informazione.
Nulla. A questo si aggiunge la paralisi dei servizi e delle prestazioni. Gli esperti avvisano da tempo: il settore sanitario è tra quelli che fanno più gola ai cybercriminali per l’eterogeneità dei software e degli hardware che lo rende più esposto. Non è un caso che l’Agenzia per la cybersicurezza nazionale (Acn) che in questi giorni sta indagando sull’accaduto sia stata creata nel 2021 dopo un attacco analogo che aveva colpito il sistema sanitario nel Lazio.
Nel mirino della polemica politica ci sono il sindaco di L’Aquila Pierluigi Biondi e il presidente della Regione Marco Marsilio, entrambi fedelissimi di Giorgia Meloni. Loro, com’è costume della politica nostrana, si rimbalzano le responsabilità e accusano i loro accusatori di tradire la Patria nel momento del bisogno (il vittimismo è una costante).
L’Agenzia per la cybersicurezza nazionale fa presente che la Asl aquilana non si è mai presa la briga di aggiornare i propri sistemi informatici come raccomandavano le direttive. Per questo la crittografia e gli antivirus non hanno potuto respingere ransomware l’attacco dello scorso 3 maggio con i criminali – che si firmano “Collettivo Monti” e che sono già noti alla nostra intelligence – che per diversi giorni hanno avanzato richieste di riscatto, ovviamente sempre declinate.
Poi è accaduto che quel quintale di dati sia finito nel dark web, con file delicati come buste paga, percorsi di cura e prescrizioni mediche a disposizione del migliore offerente. Ieri è intervenuto il Garante della privacy per ricordare che “chiunque entri in possesso o scarichi i dati pubblicati sul dark web da organizzazioni criminali – e li utilizzi per propri scopi o li diffonda on-line, sui social network o in altro modo – incorre in condotte illecite che possono, nei casi previsti dalla legge, costituire reato”. Del fatto che i dati trafugati siano stati scaricati da quasi 10mila persone però non ne risponde nessuno.
Silenzio tombale sulla débâcle informatica in Abruzzo
Questo è il piano locale. Ma dalle parti del governo? Nessuna nota è uscita da Palazzo Chigi, dove evidentemente la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ritiene che la pubblicazione delle cartelle sanitarie dei suoi cittadini sia roba di poco conto. Niente arriva nemmeno dal ministero della Sanità, sempre pronto a inviare ispettori per qualsiasi notizia calda di cronaca locale e ora curiosamente silenzioso.
Nemmeno il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi mostra il benché minimo segno di reazione. Avevano promesso di stanare gli scafisti in tutto l’orbe terraqueo ma non sembrano interessati ai criminali entrati nei computer degli ambulatori e degli ospedali di provincia. A pensar male si potrebbe credere che l’imbarazzo sia per i protagonisti politici, tutti afferenti al partito della premier. A pensare ancora peggio si potrebbe pensare che anche per i reati informatici valga la regola aurea di tutti gli altri reati: se il presunto colpevole non è uno straniero la notizia deve essere tenuta “bassa”. S’ode in lontananza solo il presidente della Regione Marsilio che ripete di non avere ceduto alle richieste di riscatto, mostrando il petto. Qualcuno sommessamente gli fa notare che cedere al ricatto sarebbe stato anche un reato. Da Roma nessuno parla. “L’attenzione è alta”, assicurano. E certo, come non fidarsi dell’attenzione che è appena stata bucata?