Le elezioni americane hanno sancito la vittoria di Donald Trump. Professore Marco Revelli, storico e politologo, era un risultato prevedibile?
“Devo dire che prima di partire negli Usa, leggendo i giornali italiani avrei detto di no. Sembravano tutti orientati sulla vittoria di Kamala Harris. Noi siamo stati nel Nevada, uno degli stati considerati in bilico, ma devo dire che lì era nell’aria la vittoria di Trump. La si avvertiva in una campagna elettorale fredda, che sembrava più uno scontro tra tifosi delle diverse fazioni che non un’elezione generale. Si avvertiva la presenza di Trump e l’assenza della Harris. Davanti a molte case c’erano cartelli che incitavano a votare Trump. Guardando i sondaggi che davano i due candidati alla pari ci sembrava un po’ strano”.
Quali sono state le ragioni della vittoria di Trump o, se preferisce, le ragioni della sconfitta di Kamala Harris?
“Se dovessi dare una valutazione generale può stupire che persone normali potessero valutare l’opzione Trump, nonostante Capitol Hill e i processi a suo carico, per non parlare dei suoi comportamenti nei confronti delle donne e del suo linguaggio. Può sembrare strano che una parte consistente dell’elettorato lo prendesse in considerazione, ma parlando con la gente la sensazione è che Trump abbia raccolto il voto dell’americano comune, il disagio dell’americano comune nei confronti del sistema. Il voto per Trump dava l’impressione di essere un voto di un cittadino vittima di un meccanismo impersonale di grandi poteri invisibili che lo vessano nella sua vita quotidiana, rispetto alla quale il linguaggio inappropriato di Trump appariva una forma di rivolta contro il sistema. La sensazione è che siano cambiati alcuni elementi fondamentali dei comportamenti di massa per cui la spinta anti-establishment sta a destra, alimenta il voto di destra. La sinistra è identificata con il sistema globale dei poteri. E rispetto a questo, la presenza di Trump era corporea mentre quella della Harris era impalpabile. Hanno pesato sul voto per Trump, poi, il carovita e la guerra. Biden-Harris erano identificati con una guerra che i cittadini non capiscono. Non capiscono perché si debbano buttare via tutti quei soldi per una causa che non li riguarda. Che, attenzione, non è pacifismo. L’elettore che ha votato Trump contro la guerra in Ucraina, tendenzialmente, è un egoista che si è interrogato sulle conseguenze e sui vantaggi di questa guerra. Trump ha detto che avrebbe fatto finire le guerre e non ne avrebbe aperto di nuove. Questo slogan è stato molto efficace e ha fatto guadagnare a Trump una serie di voti imprevedibili”.
E ora che conseguenze ci saranno sulle guerre in corso?
“Non si può dire. Perché i meccanismi di potere americano sono meccanismi che hanno un forte elemento di inerzia. Se noi pensiamo allo strato di funzionari che operano dietro le quinte dobbiamo pensare a personaggi che sono in grado di neutralizzare molte delle politiche volute dai diversi presidenti. Il margine di autonomia che avrà Trump rispetto a questo è da verificare. Molto difficile, certamente, sarà modificare la parabola di politica estera di una potenza imperiale. Non immagino dunque significative svolte in tempi relativamente brevi. Un conto era bloccare i fondi che Biden voleva dare a Zelensky attraverso il Parlamento, un conto è chiudere una guerra così radicata e così lunga. Sicuramente le possibilità che questa assurda guerra in Ucraina finisca sono però maggiori rispetto a quella mediorientale. Se la vedranno brutta i palestinesi. Dei due fronti di guerra quello che temo diventerà più crudele e feroce è quello mediorientale. Il rapporto strettissimo di Trump con Netanyahu è evidente, come nel suo entourage l’idea di colonizzare Gaza per farla diventare un luogo turistico per l’Occidente è dichiarato”.
Cosa cambierà ora per gli Stati Uniti? Dobbiamo aspettarci più petrolio e gas a discapito del cambiamento climatico con Trump? E gli immigrati?
“Gli immigrati se la vedranno brutta. Sicuramente Trump non è un paladino delle politiche ecologiche. Per il pianeta si aprirà una fase di maggiore sofferenza supposto che gli attuali governanti fossero più favorevoli a politiche ecologiche e non si limitassero a delle retoriche”.
E per l’Unione europea come si metteranno le cose? Viktor Orbán e i sovranisti festeggiano.
“Dal loro punto di vista hanno ragione a festeggiare. Orbán ha tutte le carte in regola per festeggiare. La vittoria di Trump in Europa è una sua vittoria. L’Europa pagherà la propria ignavia di questi anni e, dopo aver fatto lo zerbino dell’amministrazione americana per tutto il tempo della guerra in Ucraina, rischierà di vedersi presa a ceffoni con dazi protettivi e guerre commerciali. Anche l’Italia rischia con il made in Italy e con le sue esportazioni. Questa Europa e questa Italia, che si sono messe in modo zelante al servizio dell’amministrazione americana, rischiano di essere le grandi vittime della svolta della politica statunitense. Gli Usa, sia l’amministrazione democratica sia quella repubblicana, non hanno peraltro mai sopportato l’esistenza di un’Europa e di una moneta come l’euro come giocatori nella scacchiera mondiale”.
Intanto in Italia le destre applaudono alla vittoria di Trump, soprattutto Matteo Salvini.
“Salvini rivendica la primogenitura. Meloni pagherà il bacio in fronte di Biden di cui andava fiera e che ora rischia di ritorcersi contro di lei. Non credo abbia grandi ragioni per festeggiare, al contrario di Salvini trumpiano d’Italia. Meloni ha pensato di giocare sulle ambiguità e di fare la furba e rischia di pagarla da questo punto di vista”.
C’è qualcosa che il centrosinistra italiano può imparare dalla sconfitta bruciante della Harris?
“Sì, perché la sinistra deve reinventarsi dalle radici. Questa sinistra si è identificata con l’establishment della globalizzazione e, nell’identificarsi con tutto questo, ha perso di presenza nella società. La sinistra appare come un arcipelago di élite politiche e culturali, incapaci di interpretare i disagi ampi della popolazione che sono i disagi prodotti da dimensioni di sistema, dalle grandi piattaforme, dai grandi sistemi di organizzazione che sono disorganizzati. Questi sistemi devono gestire una realtà globale sempre più complessa e che rischia l’entropia. Quando i sistemi si dilatano troppo rischiano il disordine. E tutto questo genera disagio nella popolazione. Il linguaggio sopra le righe, sgangherato di politici come Trump o Orbán o come i leader delle nuove destre, non promette di risolvere i problemi ma permette ai cittadini in sofferenza di identificarsi. Quando Trump dice di sparare sui media, su questo o su quell’altro, dà voce a un sentimento profondo e viscerale che ha il cittadino comune davanti alle difficoltà che quotidianamente gli vengono prodotte dalle disfunzionalità sistemiche. Che siano le regole assurde europee o il malfunzionamento del sistema sanitario o di quello dei trasporti o di quello delle assicurazioni. Tutti poteri enormi che schiacciano i cittadini, che li fanno sentire soli e angariati e rispetto a cui l’invettiva trumpiana offre terreno di identificazione. Cosa che la sinistra non sa fare. La sinistra finisce per essere identificata come il sistema che angaria i cittadini. Questo, oltre a essere terribile, è un cambiamento di scenario. Come fa un Paese a eleggere uno come Trump, con a carico tutto quello di cui dicevamo sopra? La spiegazione di come questo sia possibile è solo nella lettura di questi processi come una forma di rivolta degli istinti delle vittime delle disfunzionalità sistemiche. È una sorta di ‘68 rovesciato. Tutto si spiega con la rabbia e la rivolta di parti consistenti della popolazione che non trovano interpreti del proprio disagio se non in queste figure del limite come Trump. E la sinistra invece tutta compunta, compiaciuta del sistema di regole esistenti, finisce per diventare bersaglio di questa rabbia”.