Doveva essere l’emblema più eloquente del vento di cambiamento nella Tv pubblica e invece si starebbe rivelando un vero e proprio flop. Non fosse altro che nulla pare essere cambiato al Tg1 dopo la nomina dei nuovi direttori di rete e testate. Questo è il quadro che più di qualcuno tratteggia tra i corridoi di Viale Mazzini e Saxa Rubra da una parte e quelli parlamentari della Vigilanza Rai dall’altra. Mentre il piano industriale fortemente voluto da Fabrizio Salini e Marcello Foa e condiviso in Cda si avvia all’ok definitivo previsto per domani – salvo ritardi dell’ultima ora – a far discutere, tra gli addetti ai lavori e non, è l’operato del direttore del Tg1 Giuseppe Carboni.
“Ci si aspettava una rivoluzione – si mormora a Montecitorio – ma il risultato è che l’impianto non è assolutamente cambiato rispetto al passato”. Secondo alcuni determinante sarebbe l’amicizia che lega Carboni all’ex numero uno della Rai, Mario Orfeo. I ben informati, non a caso, ricordano che fu proprio Orfeo a nominare l’attuale direttore del Tg1 caporedattore al Tg2 nel 2012. Tra i due ci sarebbe un solido e frequente confronto che non sarebbe visto di buon occhio non solo dall’ala pentastellata che resta in attesa di una svolta che tarda ad arrivare, ma anche da quella leghista: Carboni, infatti, esattamente come al tempo Orfeo, avrebbe espresso perplessità sulla fascia post-Tg1 che fu di Enzo Biagi e su cui, come si sa, aveva messo gli occhi il Carroccio sponsorizzando Maria Giovanna Maglie.
In questo stato di totale incertezza, dunque, Carboni non solo avrebbe fatto sorgere dubbi ai suoi stessi sponsor politici, ma non riuscirebbe a tenere salda neanche la redazione ai suoi comandi. Più di qualcuno racconta che i vicedirettori farebbero a gara a dare il proprio personale imprinting sulle varie edizioni del telegiornale, con la conseguenza che si rischia di andare a ruota libera, senza una precisa linea editoriale. Un’eventualità, questa, che il primo telegiornale nazionale non può concedersi. Con il pericolo (per alcuni già concretizzatosi) che a “dominare” sia la vecchia linea filo-piddina.
Basta d’altronde scorrere i nomi per vedere come tra i vicedirettori ci siano giornalisti – da Costanza Crescimbeni a Bruno Luverà – vicini al centrosinistra. “Non sarebbe un problema – sottolinea più di qualcuno in Rai – se il direttore riuscisse a tenere le redini della redazione. Così invece non è: ne esce un Tg confuso, che non ha una linea chiara e che è simile al passato”.
La polemica, almeno per ora, si muove lontano dai piani alti e dal Cda che è tutto preso dall’approvazione del piano industriale che, a quanto pare, ha convinto grossomodo tutti. Sarebbe stato completamente superato anche lo scoglio della newsroom unica: soprattutto grazie alla mediazione di Foa che, in qualità di garante Rai, ha preteso che il pluralismo fosse garantito nel piano, si è riusciti a trovare una quadra tra l’esigenza di razionalizzare i costi (e dunque evitare che una stessa conferenza o uno stesso fatto di cronaca venga seguito da più giornalisti che inevitabilmente confezionerebbero servizi fotocopia) e la garanzia che ogni Tg abbia la sua specifica linea editoriale (e dunque la possibilità di approfondire il servizio con interviste, inchieste, ecc.). A patto che – sogghigna malignamente qualcuno – ci sia, una linea editoriale.