Che sia un problema endemico della giustizia italiana lo sappiamo da sempre. Monetizzare quel problema e leggere che, ahinoi, vale qualcosa come 340 milioni di euro, fa decisamente un certo effetto. Parliamo del cosiddetto “debito Pinto”, ovvero i debiti che lo Stato italiano accumula una volta essere stato condannato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per l’irragionevole durata dei processi. I numeri, nascosti nel lungo report che il ministero della Giustizia, guidato da Andrea Orlando, ha consegnato in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, parlano chiaro. D’altronde è lo stesso ministero che sul punto non fa giri di parole: “Il numero e l’entità delle condanne rappresentano annualmente una voce importante del passivo del bilancio della Giustizia”. Una voce, continuano i tecnici ministeriali, “la cui eliminazione si pone come prioritario obiettivo dell’amministrazione per la sua incidenza anche sulla valutazione di efficienza ed affidabilità dello Stato e dei suoi poteri”. Due principi, questi, che evidentemente sono ancora lontani. Perché, se è vero che nel 2015 il debito accumulato corrispondeva a 456 milioni di euro, è altrettanto vero che i 338 milioni di passivo di oggi, non sono certamente indice di “efficienza” ed “affidabilità”.
Ritardi su ritardi – A questo punto, però, urge porsi una domanda: com’è stato possibile arrivare a un tale debito? Ovviamente gran parte della responsabilità è imputabile alla lunghezza dei processi: nel 2017, come sottolineato dal Primo presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Mammone, viaggiamo in media sui 200 giorni per giungere a sentenza in un procedimento penale. E questo dato – figuriamoci – è stato salutato come un grande risultato. Non dobbiamo sorprenderci, allora, che solo l’anno scorso il ministero della Giustizia abbia trattato 10.624 pratiche derivanti da 3.370 provvedimenti di condanna, tra quelle comminate in ambito nazionale e quelle derivanti da sentenze emesse dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Ma l’aggravio è determinato anche da un cortocircuito imbarazzante nelle modalità di pagamento: “I ritardi – scrivono ancora i tecnici – hanno portato negli anni alla creazione di ulteriori filoni di contenzioso, con l’aggravio di spese anche molto consistenti”. Insomma, dalla padella alla brace. Fino al risultato che conosciamo. Vedremo se il prossimo Esecutivo riuscirà a imprimere una svolta ancora più determinante nel recupero di chi, vittima già di un processo infinito, non si vede ancora risarcito. Anche se sono passati, in alcuni casi, cinque anni. Certo è che c’è tanto da fare: nel 2017 sono stati predisposti 7.033 ordini di pagamento per un totale di 17 milioni. Ma i ricorsi, intanto, crescono. Solo nel primo semestre dello scorso anno, sono stati presentati 958 ricorsi. E non va meglio in campo europeo: dall’anno della sua creazione (1959), la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia 2.382 volte; in 1.193 casi è stato per l’irragionevole durata dei processi.
Twitter: @CarmineGazzanni