Sabato Roma sarà una città blindata in vista di ben 5 maxi-cortei differenti e altri sit-in sparsi per la città in occasione della celebrazione dei 60 anni dei Trattati di Roma che sancirono la nascita della Comunità Economica Europea. La Capitale ospiterà oltre 60 fra capi di Stato, ministri degli esteri e autorità politiche dal continente e da tutto il mondo. La possibile azione dei black bloc si mischia al timore concreto di attentati terroristici, visti anche i fatti di Parigi Orly. Oltre 3.000 agenti in campo, il triplo delle forze dell’ordine previste per eventi di questo tipo. E poi tiratori scelti sui palazzi ( anche se la mappa è segreta) e ben 39 varchi d’accesso al centro storico “allargato”, con particolare attenzione a Campidoglio e Quirinale.
Tutto ciò rende l’idea di come il sessantesimo anniversario della firma dei Trattati di Roma, primo mattoncino dell’Ue, rappresenti per i black bloc una ricorrenza da festeggiare alla loro maniera, con sassaiole, vetri rotti e strade devastate. Globalizzazione e capitalismo sono i nemici maggiori di questi giovani che vogliono rappresentare una tattica piuttosto che un gruppo. Tattica ispirata da un connubio in chiave moderna di movimenti ex anarchici o ex marixisti che fanno del brano tedesco “Macht Kaputt was euch kaputt” il loro inno: distruggi ciò che ti distrugge. Oggi i black bloc non sono fascisti né comunisti né appartenenti ad alcuna categoria politica. Non si scagliano contro la fame nel mondo ma contro l’assenza di opportunità. Il filo conduttore della loro tattica è la constatazione che pochi piccoli potentati (l’Ue, i mercati, le cortoration, ecc.) bruciano tanti grandi potenziali. È il potenziale la chiave di lettura del fenomeno che dal 2001 non perde occasione per manifestarsi: artisti costretti a fare gli impiegati, talenti obbligati a vivere al margine della società, intelligenze sprecate davanti a un computer e tecnici ridotti a emigrare alla ricerca di fortuna. Perché non sono giovani esaltati e ignoranti come spesso vengono dipinti per derubricare un tema di portata così elevata a mero disagio giovanile. C’è chi lo fa per moda o per emulazione inconsapevole ma anche e soprattutto chi fa della propria frustrazione una leva sociale che, unita a tante altre, grida il bisogno dei nostri tempi di dare spazio al potenziale unico di ognuno. Per questo i black bloc non si riuniscono (o meglio si riuniscono solo durante le singole manifestazioni); non si danno una gerarchia; non creano gruppi sparsi con leader diversi, ma si comportano, da massa, come un singolo individuo razionale. Su una singola convergenza ideale non esistono distinguo, non esistono rendite di posizione ma una unica distinzione ideale e non ideologica tra lasciare le cose come stanno e cambiarle, pur non sapendo come.
Vince la rabbia – È l’ignoto a generare la violenza, che annulla ogni sforzo di libertà. Perché quello che i black bloc ancora non sanno è che la loro tattica che vuole essere resistenza è in realtà un assist per chi sfrutta le loro malefatte per screditarne la missione. Non lo sanno ancora, ma la loro è la resistenza più passiva che ci possa essere, benché così sentita e violenta, perché i giovani animati da fervore (politico, sociale o casuale) si arrendono recintandosi nella condizione di vittime rabbiose. Senza costruire alcuna alternativa, si arrendono a passare dalla parte del torto rinchiudendosi in una nicchia poco identificabile e quindi non condivisibile. E si guarderanno indietro, da grandi, forse ancora schiavi di quel mondo che volevano cambiare, e ripeteranno in coro. Come disse Hoffman, che “certo eravamo giovani, eravamo arroganti, eravamo ridicoli, eravamo eccessivi, eravamo avventati, ma avevamo ragione”.