Con l’avvicinarsi della fine della Legislatura e l’incombere delle elezioni politiche si accendono – com’è consolidata tradizione da noi – aspre polemiche sul mondo Rai. Si dibatte su tutto: ora sugli ascolti; ora sui compensi; ora sui palinsesti; ora sul pluralismo; ora sul potere dei grandi agenti e non può mancare il sempiterno tema della possibile privatizzazione. Insomma niente di nuovo. Eppure qualcosa di realmente nuovo in questa Legislatura c’è stato e due grandi cambiamenti hanno toccato la Rai: la riforma delle governance (che prevede, tra l’altro, la tanto auspicata figura dell’Amministratore Delegato con reali poteri di gestione e d’indirizzo) e l’introduzione del pagamento del canone attraverso le bollette elettriche (cosa che ha sicuramente stabilizzato le risorse aziendali).
Quello che, forse, è mancato e continua a mancare anche nel dibattito di questi giorni, è una riflessione approfondita sul senso autentico del servizio pubblico radiotelevisivo, partendo dalla necessità di porsi una domanda “a monte”: l’esplosione della multicanalità e delle multipiattaforme giustifica ancora la necessità di un “servizio pubblico”? In altre parole, la domanda per programmi che possano essere definiti di servizio pubblico può comunque essere soddisfatta dall’offerta autonoma di mercato attraverso centinaia di canali televisivi e attraverso l’interattività permessa da Internet senza bisogno di una (o più) emittenti ad hoc? Ad esempio l’esistenza di canali tematici facilmente accessibili per il teatro, lo sport, la scuola, la cucina, il meteo etc.. può rendere superflua la necessità di un palinsesto specifico di un broadcaster “pubblico”? La risposta non è facile anche perché presuppone una definizione compiuta della nozione di servizio pubblico radiotelevisivo che invece è, dal punto di vista giuridico, tra le più complesse e tormentate essendo variabile di epoca in epoca, da Paese a Paese. Se un filo rosso si può trovare tra i diversi concetti e le diverse esperienze internazionali è che l’intervento dello Stato nel settore televisivo (come attore e non come mero regolatore) si giustifica con l’importanza attribuita al mezzo, alla sua influenza sui comportamenti politici e sociali nonché con l’opportunità di tutelare “le radici e le identità nazionali”. In questo senso mi sembra che le ragioni del servizio pubblico radiotelevisivo nel nostro Paese continuino pienamente a sussistere anche se è lecito interrogarsi “de jure condendo” e guardando al futuro se lo strumento usato sinora (un solo broadcaster specializzato, finanziato in parte dal canone in parte dal mercato) sia quello più efficiente e/o più utile.
Alzando un po’ lo sguardo a livello internazionale le soluzioni adottate sono essenzialmente tre: Paesi in cui esiste una sola TV pubblica o con funzioni pubbliche (oltre l’Italia, l’Austria, la Svezia, la Finlandia, la Svizzera, il Portogallo, la Francia, il Regno Unito – seppur quest’ultimo con qualche distinguo); Paesi dove esistono più emittenti pubbliche (Belgio, Danimarca, Germania, Norvegia, Paesi Bassi, Spagna, Australia, Usa); un servizio pubblico focalizzato sui programmi e non sull’emittente. E’ questo il caso della sola Nuova Zelanda ( e, in parte, di Singapore) dove pur esiste una TV di Stato ma che si finanzia in toto sul mercato con la pubblicità mentre il canone viene raccolto da strutture pubbliche che poi lo distribuiscono a chiunque faccia programmi di “sevizio pubblico”. Un modello interessante e moderno (anche perché molto più dinamico e flessibile degli altri) e che, in qualche modo, ricorda quanto attuato in Italia – con successo – in tema di finanziamento pubblico delle opere cinematografiche e dell’editoria.