E’ stato reso noto in questi giorni a Londra il rapporto atteso da quasi tre anni, che investiga sul comportamento della BBC in relazione al triste caso di Jimmy Savile la mega-star televisiva britannica accusata di aver abusato sessualmente 72 vittime tra questi molti bambini dei due sessi.
Il rapporto è stato deciso dalla stessa BBC sull’onda delle proteste popolari e redatto da una personalità indipendente l’autorevole giudice ora in pensione Janet Smith. I risultati sono sconvolgenti, nel lungo periodo (dal 1964 al 2007) in cui Savile fu la star di punta dell’intrattenimento della BBC sono emerse evidenze inequivocabili che egli violentò almeno 8 persone (tra questi un bambino di 8 anni) direttamente nell’ambito dei programmi televisivi. E, soprattutto, lo staff della BBC che era a più diretto contatto con il presentatore era consapevole delle vicende e nulla ha fatto per evitarle.
La giudice Smith si interroga specificatamente sul perché le voci del comportamento mostruoso di Savile non siano mai state riportate ai vertici dell’azienda televisiva e trova una motivazione nel tipo di rapporto di lavoro prevalente in quegli anni nel settore entertainment della BBC ( e largamente in essere anche ora). Gran parte degli impiegati e dirigenti di settore avevano infatti contratti a breve termine o erano addirittura dei “free-lancers” e ciò dava loro un senso di insicurezza e vulnerabilità delle proprie posizioni lavorative che impediva loro di prendere posizioni coraggiose o semplicemente “in linea con la tradizione di correttezza della BBC”. In buona sostanza, avevano paura di perdere il posto di lavoro qualora si fossero messi contro la mega star stupratore seriale ma che per anni ha fatto il bello e il cattivo tempo in BBC.
Francamente comportamenti del tutto inaccettabili per una azienda che passa (a torto o a ragione?) per “il” modello di servizio pubblico radiotelevisivo. Come diceva un gingle di qualche anno fa “no la Rai non è la BBC”. Meglio così.
La Corte di Cassazione con una recente ordinanza dell’8 febbraio scorso (n. 2468/16) ha stabilito che gli studi professionali non sono tenuti a corrispondere i compensi relativi al diritto d’autore (art. 73 e 73 bis della legge sul diritto d’autore). La Corte si è pronunciata sul caso di uno studio odontoiatrico che si è rifiutato di pagare i diritti per la musica di sottofondo. La vicenda era stata sollevata nelle aule di giustizia dalla Scf (Società Consortile Fonografici) società che svolge attività di “collecting” in Italia e all’estero per la gestione, l’incasso e la ripartizione dei diritti dei produttori fonografici ad essa associati.
Peculiare, e a mio avviso discutibile, la motivazione della Corte che ha ritenuto che i diritti d’autore non dovessero essere riconosciuti perché la clientela di passaggio nello studio “non equivale a un pubblico vero e proprio”.