In Italia si dichiara di più, ma si guadagna di meno. È il paradosso che emerge dall’analisi di Lorenzo Ruffino pubblicata da Pagella Politica basata sui nuovi dati del Ministero dell’Economia e delle Finanze, diffusi 16 aprile e relativi ai guadagni del 2023. In termini nominali, i redditi medi lordi sono cresciuti del 5% rispetto all’anno precedente, arrivando a 23.950 euro. Ma se si tiene conto dell’inflazione, il reddito reale scende: 90 euro in meno rispetto al 2022. La fotografia è nitida: da quindici anni il reddito medio italiano è inchiodato, schiacciato dall’aumento dei prezzi e da una crescita economica che non riesce a scalfire le disuguaglianze strutturali.
l dato più brutale è che il 64% dei contribuenti vive con meno di 900 euro al mese netti. Non è una minoranza marginale: è la maggioranza. E mentre la base si allarga verso il basso, l’1,7% più ricco continua a sostenere quasi un quarto dell’intera IRPEF. Il sistema è progressivo, ma la progressività ha un tetto: chi guadagna poco paga comunque, ma non riceve servizi all’altezza di quel sacrificio. La redistribuzione promessa si scontra con un welfare logoro, frammentato, troppo spesso progettato per non funzionare.
Una geografia della disuguaglianza
I divari sono ovunque. I lavoratori autonomi dichiarano in media 75.710 euro, ma è una stima che non tiene conto dell’evasione: è lo stesso ministero a dirlo. I dipendenti restano fermi a 25.110 euro, con una perdita reale del potere d’acquisto. È il dato più eloquente di un mercato del lavoro che scarica l’instabilità sulle spalle di chi ha meno strumenti per difendersi. I pensionati, invece, dichiarano 23.730 euro e sono tra i pochi ad aver registrato un aumento del reddito reale. Segno che l’unico scudo contro l’inflazione, oggi, è la rendita, non il lavoro.
La frattura generazionale è profonda: i giovani tra i 15 e i 24 anni dichiarano 7.980 euro, una soglia che somiglia più a una paghetta che a un reddito. Anche qui, non c’è solo precarietà, ma la normalizzazione della precarietà. Il picco si raggiunge tra i 45 e i 64 anni, oltre i 28.000 euro, per poi ridiscendere. È un ciclo che non si rinnova, una curva che non si sposta. La retorica del talento si frantuma contro una realtà dove si entra tardi nel mercato del lavoro, si guadagna poco e si invecchia poveri.
Il divario di genere resta imbarazzante: quasi 9.000 euro in meno per le donne, ferme a 19.410 euro medi contro i 28.080 degli uomini. A nulla servono i discorsi sulle pari opportunità se la realtà retributiva resta questa: le donne lavorano di più, guadagnano meno e reggono ancora il peso delle fragilità sociali, spesso invisibili. In un Paese dove il part-time femminile è spesso imposto più che scelto, la diseguaglianza salariale è solo la punta del problema.
Nord e Sud, due mondi separati
Poi c’è l’Italia a due velocità, anzi a due geografie. Nel Nord-Ovest si dichiarano 26.950 euro, nel Mezzogiorno appena 19.570. Milano è l’unica provincia sopra i 30.000 euro, con Portofino che gioca in un campionato a parte (94.500 euro per 277 contribuenti), mentre Crotone si ferma a 17.040. Non sono differenze: sono dislivelli strutturali, scelte politiche sedimentate, investimenti mai fatti, infrastrutture mai arrivate. Sono la mappa precisa della diseguaglianza spaziale, quella che non si può correggere con qualche bonus una tantum.
La radiografia dei redditi non racconta solo quanto guadagniamo. Racconta come siamo stati governati. Racconta chi è stato lasciato indietro e chi è stato protetto. Racconta perché certe zone non riescono a ripartire e perché in alcune famiglie il reddito è diventato un concetto teorico. Racconta l’illusione del merito in un Paese dove la mobilità sociale si è fermata e l’ascensore è rotto da anni.