Ieri il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha pubblicato sui suoi social un video. È Gaza, come la vorrebbe Trump. Ci sono donne affascinanti che ballano sulla spiaggia, ricchi che oziano sui lettini sotto il sole, uomini – ovviamente bianchi – che si dedicano agli aperitivi, hotel di lusso, attrezzature turistiche, soldi che piovono dal cielo, yacht parcheggiati, auto di lusso.
C’è ovviamente anche Trump: lo si vede mentre balla eccitato con una danzatrice del ventre, lo si vede in un palloncino color oro tenuto in mano da bambini – ovviamente bianchi – e lo si vede nell’insegna di un pregiato palazzo. C’è ovviamente anche il suo sodale Musk, dedito al sollazzo nel meraviglioso mondo di “Trump Gaza”. C’è Netanyahu sdraiato in costume e felice in spiaggia con Trump.
È lo spot di una pulizia etnica travestita da affare immobiliare. È un inno al suprematismo. Gli abitanti di Gaza nel video sono scomparsi, come nemmeno la violenza dell’esercito israeliano è ancora riuscita a fare. È male in purezza, volgarissimo male esibito con gusto. Il razzismo patinato offerto come opportunità di sviluppo ha una piega che rimanda ai peggiori autocrati della storia.
È un video che lascia senza parole. E invece in questo tempo le parole vanno usate, eccome, pesate una a una, scritte senza compromessi chiamando le cose con il loro nome: il presidente americano è nemico dell’umana compassione, della razionalità sviluppata nel corso dei secoli, dell’umana empatia basilare per essere considerate bestie sociali.
C’è un confine, netto, e non è quello di Gaza: chi appoggia Trump e chi sta dall’altra parte del fronte.