La probabile ritirata di Air France dal salvataggio di Alitalia ha più ragioni industriali che patriottiche. I francesi sono decenni che perdono soldi nella nostra compagnia e adesso che i rapporti tra Roma e Parigi sono tesissimi sembrano più aver preso la palla al balzo che voler vendicare l’onore ferito dell’Eliseo. D’altra parte la cordata con le nostre Ferrovie e il vettore americano Delta è complicato, e probabilmente nella partita stanno già per entrare i tedeschi di Lufthansa. Dunque quale miglior scusa per scappare, senza peraltro rendersi conto che così si fa fare una pessima figura alle centinaia di altre imprese francesi che in Italia invece ci restano, anche perché qui se la passano molto bene?
Così, mentre lo shopping italiano Oltralpe è frenato, come nel caso dell’acquisizione dei cantieri navali di Saint Nazaire da parte di Fincantieri, i francesi qui da noi fanno shopping a più non posso. Basti pensare che sono i maggiori investitori dietro solo Usa e Germania. Negli ultimi venti anni si stima che abbiano speso cento miliardi, ma con poche eccezioni – tipo Alitalia, appunto – senza sprecarli. Tra le centinaia di gioielli del made in Italy che si sono accaparrati ci sono molti dei maggiori marchi della finanza, dell’industria, della moda e del lusso. Le griffe più note sono Gucci, Brioni, Pomellato e Bottega Veneta conquistate dal colosso Kering di François Pinault o inglobati dal suo rivale Bernard Arnault, patron di LVMH (Louis Vuitton Moët Hennessy), che detiene Emilio Pucci, Fendi, Bulgari, Loro Piana, i gioielli di Repossi.
Anche quando sembra che si sposino con i gruppi di casa nostra, in realtà i francesi comprano, riuscendo a convincere persino uno degli uomini più liquidi d’Italia come Leonardo Del Vecchio, che ha fuso la sua Luxottica con Essilor. Formalmente un sodalizio alla pari, ma basti considerare che la nuova società è quotata alla Borsa di Parigi e non a Milano per capire chi comanda davvero. Ci sono poi i grandi affari della finanza, dove svettano le partecipazioni determinanti in Generali – è francese lo stesso ceo Philippe Donnet – e Pioneer ceduta pochi anni fa da Unicredit ad Amundi.
Sul capitolo banche, la Banca nazionale del lavoro è controllata dal 2006 da Bnp-Parisbas, che la comprò chiudendo la stagione dei furbetti del quartierino Ricucci, Coppola & C. Molto presente la rete di agenzie del Crédit Agricole rilevate a suo tempo da Banca Intesa Sanpaolo, e ancora nelle assicurazioni la Nuova Tirrenia passata a Groupama. Non tutte le ciambelle ovviamente riescono col buco, e tra le campagne meno fortunate c’è la scalata fallita di Vivendi a Mediaset e la disastrosa partecipazione in Tim, dove lo stesso gruppo del finanziere bretone Vincent Bollorè ha perso il controllo in assemblea, pur detenendo singolarmente la maggiore quota di capitale sociale (23,94%).
I francesi se la comandano inoltre nella grande distribuzione alimentare, con Parmalat, Eridania e i supermercati GS trasformati nel 2010 in Carrefour. Nel 2016 Epi ha acquistato la tenuta Greppo produttrice del Brunello di Montalcino e nel 2017 Salinas le più grandi saline marine d’Europa, in Puglia. Frutta molto anche l’energia. Dal 2012 il gruppo Edf ha in mano Edison, mentre Gdf Suez e Suez detengono oltre il 23% di Acea. Un mare di interessi che non finisce qui, e che non può certo ritirarsi come una Air France qualunque da un Paese che porta miliardi nei gruppi di Parigi, magari con base a due passi da quel Emmanuel Macron che alzando la tensione con l’Italia sta mettendo in difficoltà più le sue imprese che il Governo di Roma.