Il disegno della maggioranza di riforma costituzionale che taglia il numero dei deputati (da 630 a 400) e dei senatori (da 315 a 200) fa un importante passo in avanti: il testo, infatti, è stato approvato al Senato. I si sono stati 185, i no 54, gli astenuti 4. Il testo passa ora alla Camera. Trattandosi di una riforma costituzionale il disegno di legge richiederà una doppia lettura conforme delle due Camere.
Il taglio, però, ha incontrato il parere contrario di diversi esponenti delle opposizioni. Ieri, addirittura, Debora Serracchiani ha parlato di “democrazia assassinata”. La domanda, allora, sorge spontanea: come mai? Le ipotesi sono tante. Certo è che le opposizioni hanno presentato emendamenti per rivedere una riforma che, evidentemente, non convince. Il che è quantomeno strano, considerando che già nel 1997 la commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema proponeva esattamente un taglio di 230 deputati e 115 senatori.
La curiosità – o scherzi del destino – emerge da un dettagliato dossier pubblicato in questi giorni dagli uffici tecnici del Senato. Ma non è tutto: è curioso che le proposte di riforme costituzionali in questo senso siano state tante e tutte bipartisan. Nel 2006 fu il Governo presieduto da Silvio Berlusconi ad approvare una riforma che prevedeva il passaggio a 518 deputati e 252 senatori, poi bocciata dal referendum. Nella legislatura successiva (la XV) si tornò alla carica con una proposta simile. E anche nella XVI, con una riforma, che poi si arenò a Palazzo Madama, che prevedeva una Camera di 508 deputati e un Senato di 250 membri. Fino ad arrivare alla riforma Boschi, che prevedeva come tutti ricorderanno un Senato di 100 membri eletti in secondo grado, sonoramente bocciata dal referendum del 4 dicembre 2016.
La domanda, a questo punto, resta: perché mai, nonostante in passato sia a destra che a sinistra tutti abbiano provato a tagliare il numero dei parlamentari, oggi la riforma gialloverde non convince? A leggere in effetti gli emendamenti che sono stati presentati, si resta quantomeno sbigottiti: una guerra di numeri che non trova a volte piena logica e che sembra avvicinarsi più al gioco del Lotto che ad altro. Qualche esempio per capirci. Loredana De Petris (Liberi e Uguali), ad esempio, contesta il numero di 400 deputati, di cui 8 eletti nella circoscrizione Estero. E allora aveva chiesto che siano 530, di cui 10 eletti all’Estero.
In un altro emendamento, sempre a sua firma, aveva chiesto invece che fossero 500. Curiosa anche la polemica sulle circoscrizioni: per la riforma alla Camera dovrebbero essere 392. In due emendamenti differenti LeU chiedeva che siano una volta 520, un’altra 490. Anche il Pd si dà ai numeri. E così Dario Parrini aveva chiesto, per dire, che gli eletti all’estero passassero a 8 a 12 per Montecitorio, e da 4 a 6 al Senato. A proposito di Palazzo Madama, anche qui il gran ballo dei numeri, con chi chiedeva che si passasse da 200 a 265 o da 200 a 250. Interessante l’escamotage dell’ex sottosegretario dem Gianclaudio Bressa che non dà numeri, ma si affida alla perifrasi.
La proposta costituzionale recita: “Nessuna Regione può avere un numero di senatori inferiore a 5; il Molise ne ha 2, la Valle d’Aosta 1”. E cosa chiedeva il buon Bressa? “Nessuna Regione può avere un numero di senatori inferiore a 4; ciascuna delle Province autonome ne ha 3; il Friuli Venezia Giulia ne ha 7; il Molise e la Valle d’Aosta ne hanno 1”. In pratica era disposto a ridurre anche il numero di senatori eletti in ogni Regione, purché ogni Provincia autonoma ne abbia tre. Domanda: dov’è stato eletto Bressa? Nella provincia autonoma di Bolzano, manco a dirlo. Non solo: è sempre Bressa, ad esempio, a chiedere che fosse garantita “la rappresentanza di candidati appartenenti alla minoranza linguistica slovena presente nella Regione Friuli Venezia Giulia”. Proprio come richiesto anche da Tatjana Rojc, senatrice eletta nelle file del Pd. Dove? In Friuli.
Ma c’è un altro aspetto decisamente curioso. Una flotta di senatori Pd, capitanati dal solito Parrini, aveva presentato un lungo emendamento che prevedeva di sostituire gli articoli 58, 70 e 72 della Costituzione. Con cosa? In sintesi, la riforma Boschi. E non è un’esagerazione: basta prendere il testo della riforma bocciata dal referendum costituzionale del 4 dicembre per rendersi conto, ad esempio, che il nuovo articolo 70 della Costituzione proposto dal Pd è uguale e spiccicato a quello inserito nella riforma partorita dal Governo di Matteo Renzi. Interessante quest’escamotage, considerando che quella riforma è stata bocciata alle urne dai cittadini. Ora vedremo cosa accadrà a Montecitorio.