Eccoci qua, primo anniversario del 7 ottobre. Tutti a commemorare, piangere, gridare. Ma c’è un massacro di cui nessuno parla. Un massacro che continua, giorno dopo giorno. Silenzioso, metodico, spietato. Il “giornalisticidio” palestinese. Dietro alla parola ci sono 167 cadaveri. Giornalisti. Ammazzati come mosche da chi evidentemente ha qualcosa da nascondere. E non parliamo di “effetti collaterali della guerra”. No, qui si tratta di esecuzioni mirate. Articolo 21 ce lo racconta nero su bianco: 167 cronisti uccisi, 62 arrestati, 88 uffici distrutti. La più grande mattanza di giornalisti della storia. Sono palestinesi che cercavano di fare il loro lavoro. Li ammazzano a tavola, nel letto. Insieme alle loro famiglie. Perché evidentemente un giornalista è pericoloso pure quando dorme. E il giubbotto con su scritto “Press”? Un bersaglio, ecco cos’è diventato.
L’Occidente tace. I paladini della libertà di stampa si sono presi una vacanza. E intanto a Gaza si continua a morire. Di bombe, di fame, di sete. Ma guai a raccontarlo. Chi prova a farlo finisce sei piedi sotto terra o in galera. Perché la verità, si sa, è la prima vittima della guerra. Il Sindacato dei giornalisti palestinesi grida al mondo: “Fermate questo massacro!”. Ma il mondo ha le cuffie alle orecchie. Non sente, non vede, non parla. Così, mentre celebravamo il 7 ottobre, c’è chi festeggiava un anno di censura perfetta. Un anno di bugie non smentite, di crimini non documentati. Un anno di “giornalisticidio”. Ecco, la prossima volta che sentite parlare di libertà di stampa, ricordatevi di loro. Di quei 167 colleghi ammazzati per aver fatto il loro mestiere. Di quei 62 che marciscono in galera. Degli 88 uffici rasi al suolo.