di Marco Castoro
I riti fanno la storia. Alimentano la leggenda. Creano il mito. Ti fanno diventare uno Special One. Le gesta, ormai consuete, che José Mourinho sfodera nei momenti storici delle grandi vittorie sono indimenticabili. E inimitabili. Sono riti, appunto. Come il soffio di Clint Eastwood sulla colt fumante. Come l’urlo di Achille in battaglia. O come la scarica di energia di Highlander dopo aver decapitato l’avversario. Appartengono a Mou la scivolata in ginocchio sull’erba bagnata, la corsa verso i tifosi, urlando e battendosi il petto dalla parte del cuore. Lo scatto da centometrista per abbracciare il mucchio dei giocatori in festa per un gol. Ma anche il gesto mimato delle manette, le proteste contro gli arbitri, il vergognoso dito nell’occhio del compianto Tito Vilanova, scomparso proprio in questi giorni. Nel bene o nel male non si diventa Special One per caso. Il Titulo te lo devi conquistare sul campo. Devi vincere sempre qualcosa altrimenti resti con Zero Tituli. “Un vincente non è mai stanco di vincere e io non voglio perdere mai” è il motto che instancabilmente Mourinho ripete tutte le mattine davanti allo specchio quando si rade.
E Mou sì che è abituato a vincere. Ogni stagione arricchisce la bacheca con un trofeo. Ha vinto scudetti, coppe e supercoppe nazionali ed europee, la Champions con Porto e Inter. Mentre non l’ha mai conquistata con il Chelsea che quest’anno ha portato in semifinale e che stasera potrebbe essere la seconda finalista di Lisbona. Atletico Madrid permettendo.
Il fine giustifica il mezzo
Mou si potrebbe definire il Machiavelli degli anni Duemila. Non importa come, l’importante è portare a termine la missione. Quelle poche volte che non riesce a farlo è sempre colpa dell’arbitro. O del complotto a danno suo e dei suoi giocatori, che difende sempre a spada tratta come fa un vero condottiero. Dicendo fino alla noia che sono i migliori. Ma per vincere sempre occorre essere a volte Golia, a volte Davide. Dipende dall’avversario che hai davanti. Se affronti il Barcellona Mourinho sa adottare un catenaccio da far impallidire l’anima di Helenio Herrera. Tutti e 11 a difendere la propria porta come se fosse un fortino inespugnabile. Lo stesso muro che ha tirato su a Madrid contro l’Atletico nella semifinale di andata. Con l’Inter ha centrato la finale di Champions eliminando un Barcellona stratosferico. Stasera prova a conquistare un’altra finale.
“Posso lavorare di più – dice – quello che invece non posso fare sono i miracoli: io non sono Merlino o Harry Potter”.
La fortuna
Nel calcio quando vinci sei etichettato come un fortunato. La fortuna aiuta gli audaci ma qualcosa di tuo devi sempre metterlo in campo. Neanche Mourinho sfugge a questa logica. Helenio Herrera è stato talmente fortunato da meritarsi l’appellativo di Mago. Baciato dalla fortuna anche Marcello Lippi al Mondiale del 2006 e Arrigo Sacchi, per il quale si scomodò addirittura il “Fattore C”. Mou si fa inseguire dalla fortuna. Perché quando vince scappa. Cambia panchina. Molla baracca e burattini sempre al momento giusto. Dopo una vittoria. Come solo i grandi sanno fare. Si fa rimpiangere per poi essere richiamato dopo qualche anno. È accaduto con il Chelsea, accadrà anche con l’Inter. Ironia della sorte, sia al Chelsea sia al Real Madrid, il successore è stato Carlo Ancelotti, uno dei suoi irriducibili nemici. Carletto non ha mai dimenticato gli affondi di Mou nei suoi confronti. Su tutti “Nella storia della Champions c’è un solo club e un solo allenatore che erano sul tre a zero e hanno perso la finale”. Quel Milan-Liverpool che resta la macchia nera del palmares di Ancelotti. Mourinho è un genio, non solo del calcio. Lo è della comunicazione. Sorprende sempre. A Milano si presentò con la storica frase “Non sono un pirla”. È unico perché tenta quello che gli altri pensano sia impossibile. Con l’unica sostanziale differenza che a lui spesso gli riesce. Perché sa trovare soluzioni fuori dagli schemi. Esiste solo un nodo da sciogliere. Davanti ai tifosi si è battuto il petto per tutte le squadre che ha allenato, come se il suo cuore fosse consegnato alla causa. Ma un cuore è come una bandiera. Non può cambiare. È unico e resta unico. Un professionista vince e gioisce senza donare il cuore ogni volta. Quello dell’aziendalista Mou batte per chi lo paga 10 milioni di euro a stagione.