Se uscisse oggi, il celeberrimo film “Chi trova un amico trova un tesoro” (1981), interpretato dal compianto Bud Spencer e da Terence Hill, si intitolerebbe “Chi trova un amico trova un lavoro”. Nel nostro Paese si è ormai cristallizzata la tendenza a cercare un impiego tramite quelli che – in gergo – si chiamano “canali informali”, vale a dire amici, parenti, conoscenti.
Il “Rapporto Plus 2023” dell’Inapp, l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, lo dice chiaro e tondo: “I dati mostrano che tra il 2021 e il 2022 solo il 21,3% degli ingressi di disoccupati e inattivi è intermediato dai canali formali (oltre il 77% invece da canali informali). Questo dato, già basso, mostra una ulteriore diminuzione rispetto a quanto rilevato per il panel 2010-2011, nell’ambito del quale – ricorda il documento – a trovare lavoro attraverso questi canali era stato il 23,5% (e con i canali informali il restante 76,5%). Continua, cioè, a prevalere in misura troppo accentuata l’informalità, con i danni, più volte rimarcati, che si riverberano fuori e dentro i rapporti di lavoro così creati”.
Insomma: se da centri per l’impiego, agenzie di somministrazione, società di ricerca e selezione del personale passano poco più di due nuovi occupati su dieci, il fallimento delle politiche attive in Italia è conclamato. Quale riverbero ha tale dinamica sulla qualità del lavoro? “L’informalità – risponde l’Inapp – incide anche sull’instabilità del contratto: il 43,5% dei nuovi ingressi in occupazione, sempre nello stesso periodo, si concretizza in accordi informali, lavoro intermittente o addirittura nella non conoscenza del contratto (nel 2011 si era al 18,7%), cui si aggiunge un 22,3% (23,8% nel 2011) di occupazioni a tempo determinato. Gli ingressi a tempo indeterminato si attestano sul 30,5% (erano al 26,2% nel 2011)”.
Tradotto: il precariato, finanche quello selvaggio e fuorilegge, la fa da padrone e in alcuni casi si arriva ad accettare un impiego “a scatola chiusa”, circostanza che stride con una certa vulgata che vede torme di “fannulloni” e “divanisti” ovunque. Ma lo studio dell’Inapp fornisce pure un altro dettaglio interessante: nel 2021-2022 i giovani hanno cercato un’occupazione principalmente tramite i “canali formali”, ma questa “non sempre sembra essere in linea con il titolo di studio posseduto”.
I 18-29enni “lamentano soprattutto la scarsa qualità delle offerte: per uno su due le proposte sono brevi o sottopagate”: un “malessere professionale” che “si traduce anche nel desiderio di lasciare il lavoro”, al punto che “il 19,4% degli occupati” in quella fascia d’età “ha pensato di dimettersi”. Malgrado tali elementi, chi oggi siede sulla plancia di comando narra di un Paese in cui è tutto rose e fiori. La realtà prima o poi presenta il conto.