Anche nel 2024, i morti sul lavoro sono rimasti ciò che la nostra società ha deciso che siano: una cifra. Una cifra che non si alza la voce, che non pesa sulla bilancia della politica e che, soprattutto, non fa ombra alle dichiarazioni solenni che durano il tempo di un ciclo mediatico. Sono 1.481, ci dice l’Osservatorio di Bologna. Quanti di questi, a pochi giorni dall’anno nuovo, hanno già perso anche la dignità di un nome?
Ogni tragedia è stata diligentemente archiviata come “incidente”, come se la fatalità fosse l’alibi perfetto per l’inerzia. Casteldaccia, Suviana, Esselunga di Firenze, Calenzano: non sono solo luoghi di lutto, sono monumenti a una negligenza che si rinnova ogni giorno. Il 2024 ci ha lasciato in eredità il consueto paradosso: un Presidente della Repubblica che invita a prevenire l’evitabile, mentre le fabbriche e i cantieri restano trappole letali.
Ci si affida alla fredda contabilità, al gioco delle percentuali, perché è più comodo contare che agire. Diventano numeri buoni per i titoli di fine anno, poi per i rapporti ministeriali, infine per sbiadire. Di chi erano quelle mani che hanno toccato per l’ultima volta il ferro o il cemento? La risposta non serve. Non serve perché il mercato, le imprese e anche le istituzioni hanno accettato da tempo il compromesso: la vita umana è un costo, e non si investe in sicurezza senza un ritorno. Vittime collaterali, niente di più.
Fingiamo di scandalizzarci, ma in fondo ci va bene così. I morti sul lavoro, come sempre, sono abbastanza freddi da non meritare memoria. Fino al prossimo, che resterà caldo per qualche ora se sarà stato ucciso con le caratteristiche giuste per diventare notizia.