La fabbrica dei reati: un’inflazione normativa senza freni
Come riporta un’analisi di Pagella Politica, negli ultimi sei anni il nostro codice penale ha visto l’introduzione di ben 28 nuovi articoli, mentre altri 45 sono stati ampliati. Un’inflazione normativa che sembra non conoscere freni, indipendentemente dal colore politico dei governi in carica.
Il governo Meloni, in particolare, si è distinto per il suo attivismo in materia penale. Otto nuovi reati introdotti in poco più di un anno, tra cui spiccano l’organizzazione dei rave party (pudicamente ribattezzata “invasione di terreni o edifici con pericolo per la salute pubblica”) e la “pubblica intimidazione con uso di armi”, meglio nota come “stesa” nel gergo camorristico. Persino i genitori che non mandano i figli a scuola rischiano ora fino a due anni di carcere, un salto quantico rispetto alla precedente multa di 30 euro.
Ma non è solo questione di numeri. È il paradigma stesso della giustizia penale a sembrare in mutamento. Da strumento di ultima istanza, il diritto penale sembra diventare sempre più la panacea per ogni male sociale. Un approccio che il ministro Nordio, all’inizio del suo mandato, aveva promesso di contrastare, parlando di “depenalizzazione” e criticando la “panpenalizzazione”. Parole che, alla prova dei fatti, sembrano essere rimaste lettera morta.
Non che i governi precedenti si siano comportati diversamente. Il governo Draghi ha introdotto ben 14 nuovi reati contro il patrimonio culturale, mentre il “Codice rosso” del primo governo Conte ha portato quattro nuovi reati nel campo della violenza di genere. Una tendenza trasversale che sembra unire destra e sinistra in un abbraccio “law and order”.
Più reati, più giustizia? Il paradosso della penalizzazione
C’è da chiedersi se questa proliferazione di fattispecie penali sia davvero la risposta ai problemi della società italiana. O se, piuttosto, non rischi di ingolfare ulteriormente una macchina della giustizia già oberata. Senza contare il rischio di creare un sistema normativo talmente intricato da risultare incomprensibile ai più, in aperta contraddizione con il principio di certezza del diritto.
A fronte di questa espansione, i reati abrogati si contano sulle dita di una mano: sei in tutto. Ma anche qui, la realtà è più complessa di quanto sembri. In molti casi, infatti, i comportamenti “depenalizzati” sono stati semplicemente spostati sotto altre norme, in un gioco di scatole cinesi che poco ha a che fare con una vera semplificazione.
Il caso emblematico è quello dell’abuso d’ufficio, recentemente abrogato. Una mossa salutata da alcuni come una necessaria sforbiciata burocratica, ma che lascia aperto il problema di come perseguire efficacemente i comportamenti scorretti dei pubblici ufficiali.
In questo scenario, emerge chiara la necessità di un ripensamento complessivo del nostro sistema penale. Un sistema che, nato nel 1930 e più volte rimaneggiato, mostra sempre più i segni del tempo e delle stratificazioni normative. Serve una riforma organica, che sappia bilanciare l’esigenza di tutela della società con quella di un diritto penale minimo ed efficace.
In conclusione, l’espansione del codice penale italiano sembra procedere inarrestabile, come un fiume in piena che travolge ogni argine. Ma è lecito chiedersi se questa corsa all’inasprimento penale sia la strada giusta per una società più sicura e giusta. O se, paradossalmente, non rischi di produrre l’effetto opposto, creando un sistema sempre più farraginoso e meno efficace.
In un Paese dove le carceri scoppiano e i processi si trascinano per anni, forse è il caso di fermarsi un attimo e chiedersi: abbiamo davvero bisogno di tutti questi reati? O non sarebbe meglio concentrarsi sull’applicazione efficace di quelli esistenti? Domande che, nel furore legislativo degli ultimi anni, sembrano essere passate in secondo piano. Eppure, dalle risposte a queste domande dipende il futuro della giustizia in Italia.