C’è da chiedersi se non si tratti dell’ennesima vittoria di Pirro nella lotta al malaffare nella pubblica amministrazione. Già perché ieri si è conclusa l’udienza preliminare sullo scandalo di Sanremo, del lontano 2015, su di una folta schiera di dipendenti comunali che timbrava il cartellino e subito dopo andava via dal proprio posto di lavoro. Il bilancio di questa vicenda giudiziario che sembrava scontata, soprattutto per la presenza di inequivocabili immagini video, è di sedici persone rinviate a giudizio, a cui si aggiungono altrettanti patteggiamenti già concordati in passato, e dieci assolte per “non aver commesso il fatto”. Tra quelli che l’hanno fatta franca c’è anche il vigile che suo malgrado era diventato il simbolo dell’inchiesta in quanto la sua immagine, in mutande e mentre timbrava il cartellino, aveva fatto il giro del web e delle tv.
QUALCOSA STONA. Che qualcosa non andasse per il verso giusto a Sanremo era emerso con il blitz del 22 ottobre 2015. Una data in cui vennero eseguite 43 misure cautelari e che spinse il Comune a licenziare in tronco 32 dipendenti rimasti coinvolti. La vicenda aveva subito indignato l’opinione pubblica e la politica che, in men che non si dica, aveva fatto proprio il tema dei cosiddetti furbetti del cartellino. Erano gli anni del premier Matteo Renzi che, a poche ore dall’operazione della guardia di finanza, tuonava: “Questa è gente da licenziare in 48 ore. È una questione di dignità”. Iniziava così un serrato dibattito fatto di promesse di mettere mano alla normativa che regola la pubblica amministrazione ma che, di fatto, non portava a niente di concreto.
GROSSO BUCO NELL’ACQUA. La presunta svolta sarebbe dovuta arrivare con la riforma del ministro della Pubblica amministrazione, Giulia Bongiorno, del 2019. Un cambiamento epocale che entrava in vigore definitivamente il 9 luglio rendendo la titolare del dicastero orgogliosa al punto che dichiarò che nasceva “un metodo di lotta contro l’assenteismo finalmente incisivo: fino ad oggi, di fatto, la facevano franca in troppi; adesso, con le impronte digitali e la videosorveglianza, preveniamo il fenomeno. È finita l’epoca delle truffe”. Peccato che, come questa storia insegna, le cose non siano andate così perché filmare i dipendenti infedeli non significa automaticamente riuscire a dimostrarne l’illecito. Ma la riforma prevedeva anche la sostituzione dei badge con le impronte digitali. Una novità che, al di là dei buoni propositi, ancora una volta non risolveva il problema in quanto nulla avrebbe vietato a chi entra a lavoro attraverso la rilevazione biometrica, di andarsene subito dopo. Ma giusta o sbagliata che fosse, questa misura non ha neanche avuto il tempo di entrare in vigore per essere testata.
Già perché nemmeno un mese dopo l’approvazione, l’allora vicepremier Matteo Salvini decideva di staccare la spina al governo gialloverde, vanificando il lavoro svolto fino a quel momento e impedendo che quest’ultimo aspetto prendesse piede negli uffici. Fatto sta che dopo l’approvazione e mesi in cui la riforma invadeva i media, sicuramente per spiegarla ma magari anche per strizzare l’occhio all’elettorato, nel Paese tutti erano a conoscenza di cosa sarebbe capitato frodando lo Stato. Se fosse stato un sistema risolutivo, sarebbe stato lecito aspettarsi un crollo dei casi e, invece, no. Il 12 luglio a Napoli venivano beccati dodici furbetti, il 16 altri nove a Roma, e via discorrendo per un problema che, di fatto, è stato risolto sempre e solo a parole.