Come volevasi dimostrare. Era solo una questione di tempo, ma alla fine era scontato che un tribunale italiano si rivolgesse alla Corte di giustizia europea sul dl Paesi sicuri, il decreto del governo che ha provato a cambiare le regole su quelli che sono considerati i Paesi sicuri in cui è possibile rimpatriare i migranti.
È stato il tribunale di Bologna a rinviare la questione ai giudici di Lussemburgo. La richiesta è di chiarire quale sia il parametro sulla base del quale individuare quali siano i Paesi sicuri e, inoltre, se il principio del primato europeo impone di ritenere che a prevalere sia il diritto comunitario in caso di contrasto con le normative nazionali.
Il ricorso rinviato alla Corte Ue è stato promosso da un richiedente asilo del Bangladesh per il riconoscimento della protezione non avvenuto da parte della commissione territoriale. Proprio il Bangladesh è uno di quei Paesi su cui è nato il caso dei 12 migranti trasferiti in Albania e poi riportati in Italia in quanto non considerati rimpatriabili sulla base della sentenza della Corte Ue del 4 ottobre.
Sentenza secondo cui un Paese si può considerare sicuro solo se lo è in tutte le sue zone e per tutti i cittadini, criterio non ritenuto valido proprio per il Bangladesh. Da qui la controversia tra governo e magistratura, con gli attacchi dell’esecutivo e il varo del dl Paesi sicuri che punta a superare quanto stabilito dai giudici di Lussemburgo.
Il tribunale di Bologna rinvia il dl Paesi sicuri alla Corte Ue
Il tribunale di Bologna parla di “gravissime divergenze interpretative del diritto europeo” che nascono dal decreto governativo e per questo si chiede un intervento alla Corte di Lussemburgo. Il tribunale di Bologna contesta anche il principio per il quale si può definire sicuro un Paese se non lo è anche per le sue minoranze.
Tanto da arrivare a un paradosso, quello della Germania nazista: un Paese che poteva essere considerato sicuro per la maggior parte della popolazione, ma non per ebrei, omosessuali, rom e oppositori politici. La domanda, quindi, è se un Paese del genere possa o meno considerarsi sicuro pur non essendolo per tutti. In generale, per il tribunale bolognese il decreto avrebbe il carattere di “un atto politico, determinato da superiori esigenze di governo del fenomeno migratorio e di difesa dei confini, prescindendo dalle informazioni e dai giudizi espressi dai competenti uffici ministeriali sulle condizioni di sicurezza del Paese”.
Riparte lo scontro tra governo e magistratura
Neanche il tempo di diffondere la notizia, che la maggioranza riparte all’attacco dei giudici. Il primo a farlo è il capogruppo di Forza Italia al Senato, Maurizio Gasparri: “La giustizia in Italia in genere è molto lenta, salvo quando motivazioni politiche spingono i togati a essere rapidissimi”. “Ora – per Gasparri – abbiamo la conferma che c’è un governo che difende la sicurezza e la legalità e una magistratura che fa scelte diverse, con una sfida dal sapore politico che non ci sorprende e ci rafforza in un giudizio negativo che riguarda sì una minoranza di togati, ma che non può non estendersi a un intero corpo che non reagisce a questi atti politici, che vanno fuori dalle regole costituzionali vigenti”.
All’attacco anche il vicepresidente del Consiglio, Matteo Salvini: “Lo dico nel rispetto dei magistrati che fanno liberamente, indipendente il loro lavoro, se qualcuno, invece di essere in tribunale, si sente nella sede di Rifondazione comunista, si tolga la toga, si candidi alle elezioni e faccia politica”. Meno duro, ma ugualmente critico, è il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, secondo il quale “al potere giudiziario non spetta cercare di cambiare le leggi e fare il braccio di ferro con il potere esecutivo e legislativo”. La battaglia con la magistratura è appena ripresa.