Questa settimana suoneranno numerose campanelle – in date diverse in base all’appartenenza regionale – che annunceranno a sette milioni di studenti che “è cominciata la scuola!”. L’inaugurazione dell’anno scolastico non è tale se non accompagnata da polemiche che, in via a dir poco sorprendente, sono sempre le stesse da anni, diventando così emblema del fallimento nella gestione della scuola italiana, indipendentemente dai governi che si succedono.
Stabilizzata solo metà degli 81mila posti per docenti disponibili. Così va in picchiata la qualità della formazione
Certo è che negli ultimi anni, con l’irruzione non gradita della pandemia nelle nostre vite, sono emerse con ancora maggiore nitidezza le fragilità del sistema scolastico, a partire dalla qualità delle strutture (il dramma delle “classi pollaio”) e della mancanza di docenti di ruolo (le stime variano ma mediamente si parla di 200.000 supplenti). Come se non bastasse, i contagi da Covid con la variante prevalente Eris sono in risalita al punto da portare i dirigenti scolastici a distribuire, laddove richiesto, disinfettanti e mascherine (lascito delle ondate precedenti).
Dal Ministero dell’Istruzione (e del merito, eh!) al momento non provengono indicazioni a riguardo, così come non provengono risorse. Il problema è infatti costituito dalla scarsità di finanziamenti a sostegno della scuola, peraltro in un periodo in cui la si rimette al centro del dibattito pubblico per il crescente e drammatico disagio giovanile. I fondi del Pnrr che saranno destinati alla riqualificazione e ammodernamento delle scuole hanno per loro natura il tratto dell’eccezionalità (finiranno nel 2026), mentre il Paese necessita oggi più che mai di finanziamenti strutturali che consentano di concretizzare progetti migliorativi in una prospettiva di ampio respiro.
L’istruzione riceve il 4,2% del Pil contro il 5,1 medio dei 38 Paesi aderenti all’Ocse
Nel 2020, primo anno della crisi pandemica, la spesa per l’istruzione è cresciuta in modo generalizzato in tutto il continente europeo. Evidentemente non abbiamo imparato sino in fondo la lezione se oggi l’Italia investe il 4,2 % del suo Pil nell’istruzione dal livello primario a quello terziario: dato che lascia emergere la distanza dalla media dell’Ocse che è del 5,1%. Queste analisi comparative siamo certi siano arrivate sino al Ministero dato che ieri è stato presentato “Uno sguardo sull’istruzione 2023”, il report dell’Ocse contenente interessanti informazioni sulla diversificazione da paese a paese della quota di tempo di istruzione obbligatoria destinata ai percorsi primari e secondari.
In Italia, peraltro, questi fondamentali cicli scolastici saranno coperti copiosamente da supplenti perché per l’anno 2023/2024 l’immissione dei docenti in ruolo non arriverà a coprire nemmeno la metà degli 81mila posti disponibili, con un significativo danno per i precari stessi e per i nostri ragazzi a cui non è garantita la continuità dell’offerta formativa, vedendosi spesso – più volte nel corso dello stesso anno – cambiare insegnante. Così anche decreti come quello su Caivano non serviranno a nulla se non inseriti nell’ottica di un ripensamento e di una valorizzazione della scuola pubblica fatta non di parole, ma di investimenti concreti, strutturali e sapientemente gestiti. Al momento, non pervenuti.