Qualcuno l’ha già definita come la fine di una stortura, molti altri come il sonoro ceffone che la politica vuole rifilare alla magistratura. Già perché con il Sì al quinto quesito referendario, le toghe italiane saranno sottoposte a una valutazione a cui, contrariamente a quanto avviene ora, non prenderanno parte soltanto i magistrati stessi – indipendentemente se rivestono il ruolo di giudici o di pubblici ministeri – ma anche avvocati e professori universitari.
Il quesito che non scalda gli animi
Il testo della schede grigia è piuttosto breve, molto tecnico e probabilmente è quello che meno accende gli animi dei potenziali votanti che domenica saranno chiamati alle urne. Il titolo è “Partecipazione dei membri laici a tutte le deliberazioni del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari”.
Senza troppi giri di parole lo scopo è quello di realizzare la piena partecipazione di tutti i membri che compongono i due diversi tipi di Consiglio che già ora sono composti da cosiddetti membri togati – dotati di tutti i poteri – e membri laici, ossia avvocati e docenti universitari, a cui sono imposte per legge alcune limitazioni.
Sostanzialmente, allo stato attuale delle cose, quest’ultimi hanno diritto di voto soltanto su alcune materie e tra queste non figura proprio quella relativa alla valutazione dell’operato del magistrato. Pagelle, come le chiama più di qualcuno, che vengono trasmesse al Consiglio superiore della magistratura, l’organo di autogoverno dei magistrati, e che sono alla base degli avanzamenti di carriera e degli aumenti di stipendio.
Pagelle ai pm: a rischio la terzietà delle toghe
Per i sostenitori del Sì, il quesito mette fine a una stortura. Questo perché anche il Csm è composto da togati e laici ma qui, a differenza del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari, tutti i membri condividono gli stessi identici poteri. Per questo i promotori sostengono senza mezzi termini che “l’attuale sistema di valutazione dei magistrati sarebbe “in contrasto con lo spirito della Costituzione, che ha voluto che nel Csm ci sia una componente laica con poteri uguali ai magistrati”.
Non solo. La loro convinzione è che le valutazioni attuali, quasi sempre positive, siano viziate dal fatto che vengono fatte dagli stessi magistrati. Un discorso che apparentemente può aver senso ma che nasconde alcune insidie che Matteo Salvini & Co, promotori del referendum, farebbero bene a valutare.
A questo punto c’è da chiedersi come mai il legislatore ha scelto di escludere i membri laici dal formulare valutazioni sull’operato dei magistrati. E il motivo, molto banalmente, è che si è voluto evitare di creare pericolose commistioni. Quali? Semplice, gli avvocati si troverebbero a valutare l’operato dei magistrati con cui condividono gli stessi luoghi di lavoro, che indagano e giudicano i loro clienti. Un cortocircuito evidente che il legislatore, a ragione, ha deciso di evitare.
Che le cose stiano così lo ha chiarito, in un’intervista su La Stampa, il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, secondo cui quello che si realizzerebbe con il Sì sarebbe “una sorta di controllo esterno sul lavoro dei magistrati nelle valutazioni di professionalità, riconoscendo un diritto di voto ai membri laici, tra cui gli avvocati componenti del Consiglio Giudiziario”.
Qualcosa che a suo dire “è inaccettabile sia perché non si comprende per quale ragione la nostra valutazione debba essere oggetto anche di una stima da parte di chi non fa parte della nostra categoria, ma soprattutto perché in questo modo si va a intaccare l’autonomia e la terzietà del magistrato”.
Una stroncatura condivisa anche dal segretario di Area, Eugenio Albamonte, che al Corriere della Sera ha definito inutile il quesito “perché tre giorni dopo il voto sarà discussa in Senato la legge Cartabia che prevede la stessa cosa” e dopo ha precisato la sua contrarietà in quanto “l’avvocato si può trovare a valutare il giudice che gli ha dato torto o ragione pochi giorni prima” e ciò non deve accadere.