E a un certo punto spunta fuori il “nonno di Taranto”, come se questo bastasse a cancellare – o almeno a ridurre – la discriminazione ai danni di piccolo tifoso proveniente da una conduttrice sportiva “nordica”. E sì, figlia della Pianura che – evidentemente – non deve averle traferito la cultura del rispetto per il prossimo, da ovunque esso provenga. Andare contro Sara Pinna oggi è un po’ come “sparare sulla Croce Rossa”, sfido a trovare qualcuno pronto a perorarne la causa.
E di bastian contrari, nel dibattito pubblico, anche se solo per ragioni di mera visibilità ce n’è sempre qualcuno. Il caso induce però a delle riflessioni che devono mettere al centro il valore della parola specie se profferita da chi per mestiere – giornalisti, conduttori, politici – deve maneggiarla con cautela, sapendo che può concorrere a diffondere o corroborare stereotipi, nella consapevolezza che delle volte può far male agli altri e a se stessi. Come nel caso di Sara Pinna che ricorderemo per questa frase drammaticamente infelice.
La vicenda nasce da una intervista nel dopo partita del playout di Serie B di calcio, che ha visto il Cosenza mantenere la categoria a danni del Vicenza. Sentito dall’emittente vicentina Tva, un bambino tifoso del Cosenza ha detto festosamente: “Lupi si nasce”, in riferimento al simbolo della sua squadra. Qui è intervenuta la conduttrice Pinna, rispondendo: “E gatti si diventa. Non ti preoccupare che poi venite tutti in pianura a cercare lavoro”.
Il botta e risposta era passato quasi inosservato durante la diretta, ma poi estrapolato e divulgato sul web è diventato virale. La conduttrice si è poi scusata, definendosi “cretina, sciocca, infelice, banale e fuori luogo”, ma rifiutando di essere definita razzista, come invece hanno fatto migliaia di commentatori sui social.
Il punto è che non devono esistere zone franche in cui è consentito ferire l’altro con leggerezza per poi trincerarsi dietro la reiterata affermazione “era una battuta!”. Sara Pinna si è scusata, certo, ma d’altra parte l’attenzione sul caso era talmente alta che non poteva fare diversamente. La gravità dell’accaduto, però, deriva dal fatto che l’espressione tradisce un certo modo di intendere le relazioni e non è facilmente derubricabile come “scivolone”.
Certo, a chi succede di non commettere un errore, talvolta in posizioni ben più rilevanti e rappresentative di quella della “non-giornalista”? Ecco, tutto questo non può portarci a un’indulgenza collettiva, ma deve acuire la nostra volontà di riconoscere le discriminazioni di cui siamo destinatari o soggetti attivi, così da portarle alla luce in un’operazione di sensibilizzazione collettiva che parta soprattutto dal basso. Non occorre azionare la gogna, rispondendo al male con altro male, ma la tolleranza deve essere zero rispetto a chi reitera dannosi e violenti luoghi comuni.
Non di troppi giorni fa è la molestia subita dal cantante Blanco, toccato da una fan nella zona genitale durante un concerto. Il luogo comune il questo caso è che a un uomo non può non piacere essere toccato da una donna, altrimenti è “frocio”. Gli hater di professione sul web hanno così messo in moto la macchina del fango rispondendo a una molestia che richiedeva solidarietà, forse silenzio, con altra violenza.
La scelta dell’abbigliamento del cantante, il rapporto con il suo collega Mamhood, il fatto che un concerto costituisca una sorta di “terra di nessuno” in cui quasi tutto può accadere. Stereotipi, ancora stereotipi. Raccontare ai nostri figli in un linguaggio a loro accessibile la nostra quotidianità, fatta anche dei fatti di cui sopra, per creare un terreno fertile in cui il rispetto e l’inclusione siano di casa. Tutto questo costituisce un nostro dovere morale in tandem con la scuola e con le istituzioni, un dovere non ulteriormente procrastinabile.