Rajwinder Sidhu Singh, 38 anni, è morto nei campi del Tarantino. Un’altra vittima del sistema di sfruttamento che sostiene la nostra economia agricola. La storia si ripete: un malore, una versione dei fatti poco convincente, un’indagine per omicidio colposo e caporalato. I fatti parlano chiaro. Il datore di lavoro racconta di averlo trovato svenuto. I sanitari non ci credono. L’autopsia solleva dubbi. I soccorsi, probabilmente, non sono stati tempestivi.
Come nel caso di Satnam Singh a Latina, morto dissanguato dopo un’amputazione sul lavoro. Non è un caso isolato. È un sistema. Un meccanismo ben oliato che trasforma esseri umani in merce usa e getta. Il caporalato non è un’aberrazione, ma la norma. Un ingranaggio necessario per mantenere i prezzi bassi e i profitti alti. L’indignazione non basta più. Non cambia nulla. Mentre ci stracciamo le vesti, nei campi si continua a morire. Di fatica, di caldo, di sfruttamento. E di indifferenza.
La verità è scomoda: il nostro benessere si basa su questo sistema. Accettiamo tacitamente l’idea che alcune vite valgano meno di altre. Che sia accettabile sacrificare braccianti sull’altare del profitto. L’indagine in corso non è sufficiente. Serve un cambiamento radicale. Controlli serrati, pene severe, ma soprattutto una presa di coscienza collettiva. Dobbiamo riconoscere la nostra complicità in questo sistema e agire di conseguenza. La morte di Rajwinder Sidhu Singh non è una tragedia. È un crimine. Un crimine di cui siamo tutti responsabili. Finché non affronteremo questa realtà, continueremo a essere complici silenziosi di una strage senza fine.