Gli alberi sono belli. Gli alberi sono buoni. Gli alberi combattono l’inquinamento e il global warming, fissano la Co2, mitigano le ondate di calore e rendono più vivibili le città. E dunque piantare alberi è una bella cosa anche per il governo Conte 2: non ha fatto in tempo a nascere che subito ha sposato Un albero in più, l’appello lanciato a settembre dalla comunità Laudato sì con il vescovo di Rieti, Domenico Pompili, il fondatore di Slow Food, Carlo Petrini, e lo scrittore-scienziato Stefano Mancuso. Obiettivo? Contrastare la crisi climatica attraverso “azioni che portino rapidamente a un abbassamento dei livelli di Co2”. Come piantare 60 milioni di alberi dentro e intorno alle nostre città. Un albero per ogni italiano.
CANTIERE VERDE. Bella idea. Infatti Teresa Bellanova, ministro dell’Agricoltura nonché delle foreste, ha subito impegnato sul progetto la direzione generale per le foreste e il Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria), l’ente per la ricerca in agricoltura. Giuseppe Conte s’è spinto più in là: al World forum on urban forests di Milano, in novembre, ha illustrato il suo sogno di un grande Parco Italia, da realizzare in sinergia con l’Anci e con tutti gli interlocutori di buona volontà: “La sfida è di piantare un albero per ogni abitante, forse anche di più, potremmo essere ancora più ambiziosi”. E non solo per motivi etici: “Si tratta di un’opportunità economica”. Un simile cantiere verde richiederebbe infatti un investimento tra i 500 e i 600 milioni di euro, senza contare il mantenimento e la gestione dei nuovi boschi. Sarebbero centinaia di posti di lavoro pulito e sostenibile.
Qualche soldino per i nuovi alberi ha cominciato a metterlo il decreto clima: 30 milioni nel 2020 e altrettanti nel 2021. Altri soldi possono metterli i privati (a Milano stanno già raccogliendo fondi) e un po’ di eurini possono venire dalla Pac (Politica agricola comune). Ma per piantare 60 milioni di alberi, come piacerebbe a Conte, bisogna trovare anche 60mila ettari di terra, quasi 100mila campi di calcio; e poi, santo cielo, servono pure le piante. Qui c’è un problemino: “I vivai del Corpo forestale dello Stato, trasferiti anni fa alle regioni e alle comunità montane, sono stati quasi tutti chiusi o abbandonati” avverte Alessandro Cerofolini della FeRFA (Federazione rinascita forestale ambientale), la federazione degli ex forestali. “I pochi vivai italiani funzionanti possono disporre, tra qualche anno, di 5 milioni al massimo di piantine forestali autoctone”. Meno del 10 per cento del fabbisogno.
Mancano anche le strutture e gli uomini. Gli ultimi grandi rimboschimenti risalgono in Italia agli anni ‘60-70, con Amintore Fanfani. E anche se le adesioni all’appello sono già decine – Anci (Associazione nazionale dei Comuni italiani), Wwf, Legambiente, Società italiana di selvicoltura, Ordine degli agronomi, Alleanza delle cooperative… – non è chiaro chi possa, oggi, gestire o coordinare un progetto forestale così importante. Il Mipaf non ha forze bastanti. Gli assessorati regionali sono in affanno. E con la soppressione del Corpo forestale nel 2016 è finito un mondo: 7.000 uomini sono stati militarizzati nei carabinieri, altri mille sono dispersi tra finanza, polizia, Mipaaf, vigili del fuoco e persino servizi segreti, a fare intelligence ambientale come l’ex comandante Cesare Patrone. Risultato? Il più importante, pulito e sostenibile cantiere pubblico che l’Italia potrebbe mettere in piedi nei prossimi anni rischia di non vedere mai la luce. Qualcuno avverta Conte, prima che lo venga a sapere Greta Thunberg.