È di queste ore la condanna di un venticinquenne da parte del Gup di Varese per avere adescato tramite social e poi violentato una ragazzina di soli undici anni che – salita su un treno – si è “consegnata” al suo stupratore, convinta fosse una persona degna della sua fiducia. Come la maggior parte dei suoi coetanei la piccola vittima disponeva di un telefono sul quale erano installate le più comuni app di messaggistica. Ad esserle fatale la diffusissima Snapchat.
A Caivano, contesto in cui il degrado regnava indisturbato, negli stupri che hanno condotto il governo ad emanare l’omonimo decreto, il cellulare sembra ancora una volta avere un ruolo centrale perché le violenze erano state filmate evidentemente con la finalità di divulgare e vendere i video a reti ben consolidate desiderose di fruire di quegli orrori a danno di minori. Partendo da questi esemplificativi fatti – numerosi sono quelli che occupano le pagine di cronaca con frequenza quasi quotidiana – una speranza ci viene restituita dal lavoro di 100 investigatori cibernetici che sotto copertura hanno portato a ben trenta perquisizioni in tutta Italia: la maxi-operazione di contrasto alla pedopornografia online denominata Lucignolo che ha portato a tre arresti e 24 persone indagate.
Contro gli abusi commessi sul web occorre un modello di istruzione al passo con i tempi
Quel che è emerso è una rete in cui diversi criminali si scambiavano materiale illecito di varia natura, realizzato sfruttando minori. Spesso in scene di violenza sessuale. Per farlo ricorrevano a espedienti che ne nascondessero l’identità ricorrendo a un linguaggio in codice, come “Ciao, cerco cucciole” oppure “Hai min?”, con riferimento ai minori. Per diversi mesi gli investigatori cibernetici si sono infiltrati, sotto copertura, nelle chat di scambio di materiale pedopornografico, così da individuare i soggetti responsabili della pubblicazione e della divulgazione dei contenuti illeciti.
L’indagine della polizia postale è durata diversi mesi proprio per consentire agli agenti sotto copertura di conquistare la fiducia delle comunità pedofile, prima di entrare direttamente in contatto con loro, dando un’identità reale alla serie di pseudonimi. Le perquisizioni personali, locali e sui sistemi informatici, disposte dalla procura distrettuale di Torino, hanno poi portato al sequestro di una serie di dispositivi come telefonini, tablet, hard disk, pen drive, computer, ma anche account e-mail e profili social. Scoperti anche gli account usati dagli indagati per richiedere il materiale pedopornografico, oltre a una grande quantità di contenuti illeciti, custoditi su vari tipi di supporti informatici.
La tecnologia che agevola i reati, li rende virali in una spirale che – una volta avviata – difficilmente può essere arrestata, ci porta a delle considerazioni sull’enorme responsabilità che hanno la scuola e la famiglia, supportate dalle istituzioni, nel formare i bambini e gli adolescenti all’uso del digitale e ai suoi grandi rischi. Non è accettabile che una generazione di nativi digitali non abbia un piano formativo scolastico che preveda l’educazione all’uso di internet il cui accesso è ormai possibile già dalla tenera età. È come mettere al volante di una macchina chi non abbia conseguito la patente di guida, correndo dei rischi potenzialmente letali per se stessi e per gli altri.
Non basta avere nelle aule le cosiddette lim (lavagne multimediali) o consegnare i telefoni ai professori all’entrata in aula così da non usarli. La via non è il proibizionismo o, al contrario, il permissivismo. La strada maestra deve essere la diffusione di strumenti critici che possano portare i nostri ragazzi a comprendere la pericolosità di un selfie “intimo” immesso sulla rete o anche inviato per messaggio a chi si spaccia per amico e invece ha altre finalità. Che la brutalità dei reati che quotidianamente raccontiamo sia il pungolo per un ripensamento vero dell’istruzione che stia al passo con i tempi e con le esigenze delle nuove generazioni.