di Vittorio Pezzuto
Sono almeno vent’anni che Marco Pannella la definisce «cupola della mafiosità partitocratica ». Quella che di volta in volta, sulla base di una giurisprudenza non di rado contraddittoria, ha deciso di fargli fuori i quesiti referendari ritenuti più scomodi al regime. E altrettanto ricorrenti ed esplicite sono state le denunce che Berlusconi e i suoi hanno rivolto alla sua strabica composizione interna, tradizionalmente sbilanciata a sinistra. Inutile girarci intorno: composta e presieduta da personaggi di cui l’opinione pubblica non conosce nemmeno il nome, la nostra Corte costituzionale suscita da sempre una robusta diffidenza e appare più un tribunale politico di ultima istanza. Tant’è vero che i loro (pochi e prudenti) detrattori descrivono gli inquilini del Palazzo della Consulta come astuti sofisti del diritto che una conoscenza raffinata della dottrina rende capaci di argomentare una tesi oppure il suo esatto opposto. Dipenderebbe dall’aria che tira, soprattutto nel vicino palazzo del Quirinale. Non sappiamo se il capo dello Stato abbia la possibilità di influenzare occasionalmente le loro decisioni più importanti. Ma se così fosse significherebbe che in quel palazzo avvertono almeno l’esigenza di confrontarsi con chi è chiamato a garantire il rispetto della Costituzione. Il nostro sospetto è piuttosto che questi giudici – supremi, intoccabili e molto ben retribuiti (453.403,99 euro lordi all’anno che salgono a 544.084,84 euro per il presidente) – scrivano le loro sentenze indifferenti (e insofferenti) al mondo che li circonda. Crollasse pure, governo compreso.
Proprio coloro che dovrebbero essere i massimi corifei del diritto e della trasparenza si distinguono poi per la reticenza nel fornire sul sito Internet istituzionale ogni tipo di informazione sensibile (qualche anno fa si rifiutarono persino di comunicare al ministro Brunetta i dati sulle loro auto blu). Non ritengono nemmeno di dover offrire chiarimenti sull’effettiva regolarità dei loro titoli a occupare una poltrona così prestigiosa. Ce ne siamo accorti nel 2000 quando il senatore Pietro Milio denunciò che Fernanda Contri, nominata giudice nel 1996 dal presidente Scalfaro, non aveva esercitato l’avvocatura per il periodo minimo richiesto di 20 anni (non vi arrivava nemmeno computando i 4 anni trascorsi al Csm). La denuncia era clamorosa e altrettanto clamoroso è stato il silenzio con cui è stata archiviata dal Senato (il Governo si è dichiarato incompetente a rispondere alle sue interrogazioni) e dalla stessa Consulta (che non ha mai voluto replicare ad accuse così gravi).
D’altronde violare le regole della Costituzione che sono chiamati a difendere sembra non turbare più di tanto i sonni di questi signori. Il quinto comma dell’articolo 135 della nostra Carta prevede infatti che eleggano un presidente che rimane in carica per un triennio e che è eventualmente rieleggibile. Dalla metà degli anni Ottanta questa norma è stata invece infranta per tornaconto personale: al fine di consentire al maggior numero di membri di andarsene in pensione con il prestigioso titolo di presidente emerito (al quale fino al settembre 2011 era legata pure l’assegnazione a vita di macchina con autista) si è infatti deciso che il prescelto debba essere di volta in volta il collega che vanta la maggiore anzianità di servizio. Grazie a questo abile giochino quasi tutti hanno avuto così la soddisfazione di diventare presidenti anche se solo per pochi mesi: addirittura 3 nel caso di Giovanni Maria Flick (dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009), il quale peraltro giustificò la violazione della norma scritta invocando a sua difesa il ricorso a una prassi ormai consolidata. La prassi, capite? E poi c’è chi ancora si meraviglia delle loro prevedibilissime sentenze.