di Stefano Sansonetti
Una battaglia tra poteri che arriva fuori dai confini nazionali. E che, nonostante l’esito registratosi nel corso nel week end appena trascorso, promette altre ripercussioni di non poco conto. Dietro la defenestrazione di Enrico Cucchiani da Intesa Sanpaolo c’è un intreccio di situazioni all’interno del quale, di sicuro, un posto di primo piano spetta alle fondazioni bancarie, che all’interno di Ca’ del Sass continuano ad avere un potere immenso, aggrappato a un 25% del capitale della banca ancora oggi detenuto dagli enti. Negli ultimi mesi le fondazioni hanno cominciato ad avere molta paura, ben supportate dall’eterno Giovanni Bazoli, inamovibile dominus di Intesa, e dall’immarcescibile Giuseppe Guzzetti, presidente dal 1997 della fondazione Cariplo, uno degli azionisti forti dell’istituto di credito. Paura di cosa? Di sicuro dei forti legami internazionali coltivati da sempre da Cucchiani, con due possibili conseguenze che le fondazioni bancarie, intrise di politica locale, vedevano come fumo negli occhi: l’eventuale coinvolgimento di soci esteri nel capitale della banca e una pesante ristrutturazione delle sue esposizioni, magari assecondando i dettami di una Banca centrale europea destinata ad avere sempre più presa nei più importanti istituti del paese. Ecco, a qualche giorno dalla clamorosa “cacciata”, per far posto a Carlo Messina, si delineano con maggiore nettezza i motivi che stanno dietro all’ostilità maturata dal duo Bazoli-Guzzetti nei confronti di Cucchiani (che però, a quanto pare, rimarrà per altri sei mesi nella banca come direttore generale senza deleghe per mauturare i requisiti pensionistici).
Il fronte interno
In Intesa Sanpaolo il 25% circa del capitale è in mano a ben cinque fondazioni bancarie: Compagnia San Paolo, Cariplo, Cassa di risparmio di Padova e Rovigo, Ente Cassa di risparmio di Firenze e Cassa di risparmio di Bologna. Che gli organi di governo delle fondazioni siano eletti dagli enti locali, e quindi dalla politica, non è una novità. Che siano uomini politici a governarle è un dato di fatto: Compagnia San Paolo è presieduta dall’ex sindaco Pd di Torino, Sergio Chiamparino, mentre la Cariplo è guidata ininterrottamente da 16 anni da Guzzetti, ex parlamentare Dc di lungo corso. Tutti sono molto legati all’ottantenne Bazoli. E tutti, in questi anni, hanno appoggiato i rapporti finanziari coltivati da Bazoli. Per esempio quelli che hanno portato Intesa a concedere prestiti miliardi nei confronti di un autentico sodale del “grande capo”, ovvero il finanziere franco polacco Romain Zaleski.
La Tassara
E qui si apre un capitolo importante, anche se non esaustivo, nel libro sulle motivazione che hanno portato all’allontanamento di Cucchiani. Si dà infatti il caso che la Tassara, holding che fa capo proprio a Zaleski, sia esposta nei confronti delle banche per circa 2,2 miliardi di euro. Inutile dire che la maggior parte di questa esposizione sta sul groppone di Intesa, che recentemente ha dovuto mettere tra gli incagli ben 800 milioni di crediti vantati nei confronti della Tassara. Cosa significa? Semplice, che il giocattolino di Zaleski non è in grado di restituire i suoi prestiti. Ora, la Tassara è una sorta di salottino che è stato lautamente finanziato dalle banche per acquisire partecipazioni nelle stesse banche e in altre istituzioni finanziarie allo scopo di preservare certi equilibri nel fragile capitalismo nostrano. Tanto per fare qualche nome, la Tassara ha l’1,7% di Intesa, l’1,4% di Ubi Banca, il 2,5% di A2a, lo 0,68% di Generali, lo 0,25% di Bpm, l’1,14% di Mps e il 19% di Mittel. Con la crisi queste partecipazioni hanno visto il loro valore crollare, mentre il debito cresceva. Fino a quando uno delle banche esposte, Unicredit (circa 500 milioni), non ha deciso di rompere gli indugi e di portare la Tassara al redde rationem. E se Unicredit si muove, cosa fa Intesa? In alcune dichiarazioni rilasciate qualche settimana fa a Cernobbio, Cucchiani aveva dato l’impressione di voler percorrere una strada simile a Unicredit, cioè non concedere più dilazioni alla Tassara. Questo può aver innervosito Bazoli e Guzzetti, ma si tratta solo di un aspetto.
Il fronte esterno
Il fatto è che i due grandi vecchi di Intesa già da qualche tempo stavano guardando con una certa preoccupazione all’asse stabilito da Cucchiani con l’estero. Membro di Aspen, Trilateral e Club Bilderberg, Cucchiani vanta da sempre rapporti privilegiati con i grandi poteri forti esteri. Anche quelli che ruotano intorno alla Bce guidata dall’italiano Mario Draghi. Poprio quella Bce che si appresta a esercitare una vigilanza unica molto rigorosa sui grossi gruppi creditizi. Insomma, devono essersi chiesti Bazoli e Guzzetti, e se Cucchiani avesse avuto in mente di ripulire tutta una serie di situazioni nel bilancio di Intesa simili a quella che riguarda la Tassara? Troppo rischioso, potrebbero essersi detti, per far risolvere i problemi sul tappeto a un manager che guarda troppo al di fuori dei confini nazionali e troppo poco alle locali fondazioni.
Sarmi, la polizza degli spagnoli per scalare Telecom indisturbati
di Cinzia Meoni
Una scelta di non belligeranza per il vertice di Telecom Italia. E’ così che si spiega l’arrivo, dato ormai per certo, di Massimo Sarmi, manager pubblico di lungo corso, sulla poltrona di Franco Bernabè. Sarmi, ex direttore generale di Telecom (e primo d.g. di Tim), è al vertice di Poste Italiane da 11 anni e soprattutto da svariati governi. Un uomo di relazioni, che sa dialogare con i politici, oggi quindi più che mai prezioso a Telefonica per ricucire con Roma ed evitare uno scontro frontale. Fino a pochi giorni fa infatti l’esecutivo si diceva pronto ad armarsi e scendere in guerra, utilizzando tutte le scappatoie legali e legislative possibili, pur di arrestare la scalata del gruppo di Cesar Alierta al colosso tlc italiano e alla sua rete. Ovviamente, chiaro, dopo che Telefonica aveva annunciato, lo scorso 23 settembre, il raggiungimento di un accordo con gli altri soci di riferimento di Telco (Intesa Sanpaolo, Generali e Mediobanca) per l’ascesa nel capitale del gruppo. Non solo, pare che a Sarmi siano riconosciute competenze tecniche. Il manager è infatti considerato l’artefice della rinascita delle poste grazie ai progetti di ambito finanziario e anche a PosteMobile (tra i pochi operatori virtuali funzionanti). E, ovviamente, il manager condividerebbe la linea degli attuali azionisti: nessun aumento di capitale, vendita di Tim Brasil e concentrazione sulla rete. Su questo fronte in particolare, secondo indiscrezioni di mercato, gli ultimi contatti tra Alierta e il Governo avrebbero mostrato una certa apertura di Telefonica ad investire in Italia. Insomma tutto bene quel che finisce bene. Forse. Non c’è ancora nulla di ufficiale.
Le incognite
Potrebbero insorgere inconvenienti all’ultimo momento (come ad esempio, come sottolineano alcuni, l’ostacolo posto da PosteMobile, concorrente di Tim), ma gli esperti sono comunque convinti che la resa dei conti ci sarà e andrà in scena con il cda del 3 ottobre fissato per l’esame del piano industriale firmato dall’a.d. Marco Patuano (che,a quanto sembra, è a rishcio). Per quella data infatti sono attese nell’ordine le dimissioni di Bernabè, i ringraziamenti di rito da parte dell’azienda e l’annuncio del nuovo numero uno.
L’uscita di scena
L’addio di Bernabè è ormai scontato e, in ogni caso, era da tempo nell’aria (infatti i nomi di Sarmi e di Francesco Caio, neoresponsabile dell’Agenzia Digitale, giravano da tempo). Il manager di Vipiteno era infatti frutto di una situazione non più attuale (ovvero dell’accordo del 2007 tra Giovanni Bazoli di Intesa Sanpaolo e Cesare Geronzi all’epoca in Mediobanca con la copertura politica dell’allora premier Romano Prodi) ma ormai, da mesi, gli azionisti gli rimproverano il taglio del rendimento del titolo e l’assenza di una strategia volta a ridare slancio ai dati di bilancio del gruppo. La mancata adesione degli azionisti di Telco alla ricapitalizzatone da 5 miliardi strenuamente voluta da Bernabè e l’ascesa di Telefonica nel capitale, hanno solo accelerato un processo già in corso. Con Bernabè fuori dai giochi, come spiega Equita, svanisce definitivamente l’ipotesi di una ricapitalizzazione e si andrà, di conseguenza, alla vendita di Tim Brasil. Peraltro, secondo il broker, “i tempi lunghi per cedere il Brasile e lo scontro management/soci provocheranno il downgrade del debito di Telecom Italia a junk da parte delle agenzie di rating”. Iari il titolo è comunque esploso in borsa (+5%).Di Bernabè, ci verranno ricordati i successi. In sei anni al timone di comando, il valore del titolo è collassato e il perimetro del gruppo si è ridotto all’osso, ma il debito è stato ridotto di una decina di miliardi. Non dovrebbero quindi esserci quindi ostacoli per le prossime mete del manager: o la carriera politica o un altro ruolo di pari livello, magari nell’agognata Finmeccanica.