Ormai pare per tutti una certezza all’interno del Movimento: “Il terzo polo non può esistere”, dice più di un deputato; “Bisogna replicare il modello Pomigliano”, chiosa qualcun altro facendo riferimento all’alleanza stabile tra Pd e Cinque Stelle. A condensare questa nuova strada pentastellata c’è proprio chi di Pomigliano è originario: Luigi Di Maio, di fatto tornato leader indiscusso all’interno del Movimento.
Il ragionamento fatto da chi in Transatlantico ben conosce le dinamiche M5S si basa su due fattori-chiave, frutto del risultato elettorale: la vittoria schiacciante al referendum sul taglio dei parlamentari è opera dell’attuale ministro degli Esteri; la mancata alleanza sui territori con i dem e la conseguente Caporetto alle regionali è quanto lo stesso Di Maio avrebbe voluto evitare con l’appello (anche se probabilmente fuori tempo massimo) a una coalizione più ampia per fronteggiare le destre. In altre parole: la vittoria al referendum è merito di Di Maio, le pesanti sconfitte no.
E il ragionamento, checché ne possano dire gli avversari, regge. Il leader de facto del Movimento non ha mai fatto passi indietro sul taglio dei parlamentari e la stessa riforma è stata concepita da uno dei suoi più stretti fedelissimi come Riccardo Fraccaro. Al contrario, secondo molti, Di Maio è stato politicamente molto scaltro a fare il passo di lato sulle regionali prima che fosse troppo tardi, lasciano la “patata bollente” in mano a Vito Crimi. Il risultato? Lo spiega bene un senatore pentastellato: “A vincere questa tornata elettorale sono stati Conte, Zingaretti e proprio Di Maio”. Se Conte può star sereno – a meno di altri colpi di testa – che la legislatura durerà fino al 2023, Zingaretti e Di Maio hanno rinsaldato la propria leadership. A uscire sconfitti, invece, sono per gli stessi identici motivi Davide Casaleggio e Alessandro Di Battista.
E questo ben spiega la dichiarazione (dissennata, secondo alcuni) di Dibba: “È la più grande sconfitta nella storia dei 5 Stelle”. Una frase che lascia un po’ sorpresi visto il risultato storico comunque raggiunto con la riforma costituzionale. Eppure la ragione va ricercata proprio nel fatto che la verve di Di Battista non ha più la stessa presa, perlomeno sui gruppi parlamentari. Che ora chiedono a gran voce i fatidici Stati generali (all’ordine del giorno, domani alle 18, nella riunione congiunta di deputati e senatori) per capire una volta per tutte che strada prendere.
Entro massimo dieci giorni – dicono i ben informati – si conoscerà la data. L’obiettivo, per quanto dichiarato dallo stesso Di Maio, è giungere non più a una leadership personale ma collegiale. La ragione? “Non vuole lasciar fuori dalla gestione proprio Di Battista: in questo momento il Movimento non può spaccarsi destabilizzando la maggioranza e il governo”, è la riflessione. Insomma, l’obiettivo degli Stati generali sarà aprire definitivamente all’alleanza col Pd senza perdere pezzi.
Che ci possano essere rotture, però, per quanto sia un’ipotesi remota, non può essere sottovalutata. Soprattutto al Senato dove i numeri per la tenuta della maggioranza sono instabili. I direttivo del gruppo M5S di Palazzo Madama è in scadenza. Il prossimo capogruppo (alcuni ritengono che possa essere anche riconfermato Gianluca Perilli che però potrebbe non ricandidarsi) avrà il compito di tenere insieme le due opposte anime del Movimento verso gli Stati generali. Una rottura in questa fase sarebbe non solo la fine anticipata dell’esecutivo, ma anche del Movimento. In ogni caso dovrà rendere conto a Di Maio. Innanzitutto.