A rompere gli indugi era stato Nicola Zingaretti. Di buon mattino il segretario del Partito democratico dichiara che sulla prescrizione “siamo per una soluzione, chiediamo a Giuseppe Conte di trovarla, altrimenti si va avanti con la nostra proposta o anche, com’è stato proposto, con il rinvio di un anno se si vuole salvare questo governo”. Non nomina Matteo Renzi ma il numero uno dei dem si dice pronto, in mancanza di un’intesa, a sposare persino la richiesta di Iv – contenuta nell’emendamento Annibali al Milleproroghe – di far slittare di un anno la riforma Bonafede. Zingaretti non è più disponibile a lasciare campo libero a Iv e pretende dal premier “una sintesi”.
Anche perché il ministro Alfonso Bonafede ha dichiarato che “che gli italiani sono stanchi di discussioni create ad arte”. E il Pd, dal canto suo, non ha nessuna voglia di umiliare il M5S su una sua posizione “bandiera”, pur nell’ottica di una riforma complessiva del processo penale. Le parole di Zingaretti suonano come un ultimatum e in fretta e furia il premier convoca un vertice di maggioranza per la sera. Che si concluderà con un accordo a tre tra M5S, Pd e Leu mentre continuano a chiamarsi fuori i renziani. Le ipotesi su cui si erano messi al lavoro i pontieri andavano da un rinvio di sei mesi a una sorta di lodo Conte bis, che è quello su cui hanno trovato l’intesa. La mediazione iniziale ipotizzata dal premier prevedeva una distinzione tra assolti e condannati, interrompendo la prescrizione per i secondi e sospendendola per i primi.
La nuova versione recupera invece la proposta di legge sulla prescrizione “a scaletta” del deputato Leu, Federico Conte, già depositata alla Camera: la prescrizione verrebbe bloccata dopo due sentenze di condanna. E retrodatata per gli assolti in appello e condannati in primo grado. Una variante a tale schema prevede uno stop della prescrizione comunque dopo l’appello, e non dopo il primo grado, come previsto dalla Bonafede, tanto nel caso di condanna quanto in quello di assoluzione. Una terza ipotesi circolata contempla la possibilità che a decidere le sorti della riforma sia il Parlamento. Le occasioni non mancano, dal voto sull’emendamento renziano a quello sul testo del forzista Enrico Costa, che cancella la riforma pentastellata.
L’esito del voto però avrebbe conseguenze politiche non prevedibili: da qui la totale contrarietà del premier a questa opzione. L’ostacolo maggiore sono, ancora una volta, i renziani che hanno bocciato il primo che il secondo lodo Conte. E che per fermare Bonafede sarebbero disposti pure ad alleanze trasversali con le opposizioni. Alla vigilia del vertice fanno la “faccia cattiva”: il ministro Bonafede deve cedere, dicono, “se non lo convince la politica ci penserà la matematica”: non ha i numeri al Senato. Dove, minacciano, “presenteremo una pdl di ripristino della legge Orlando”. Ma è proprio uno slittamento della sua legge, entrata in vigore il primo gennaio, che farebbe più male a Bonafede.
Il vicesegretario del Pd Andrea Orlando apre al ministro e chiude al senatore di Rignano sull’Arno: “Decide il Parlamento, non Renzi”. Commenta caustico, e spiega: “Saremmo stati favorevoli a un rinvio ma non vogliamo forzare. Vogliamo trovare un’intesa nella maggioranza senza far entrare in pista Salvini”. E alle dieci di ieri sera, dopo un’ora e mezzo di vertice le posizioni dei partiti sono quelle della mattina. Adesso la palla al Parlamento, sempre che Renzi porti davvero fino in fondo la sua sfida.