Due giorni fa, l’Istat ha confermato ciò che purtroppo già sapevamo: nel 2023, primo anno del governo FdI-Lega-Forza Italia, il numero di poveri assoluti ha toccato il record storico (5,7 milioni). Non si vedeva un numero così alto di minori in totale indigenza (circa 1,3 milioni) dal 2014; anche le famiglie di operai in povertà sono aumentate: 16,5%, in crescita rispetto al 14,7% del 2022. Pure in questo caso, si tratta del valore più elevato da dieci anni. “Nonostante l’andamento positivo del mercato del lavoro nel 2023, registrato anche nei due anni precedenti, l’impatto dell’inflazione ha contrastato la possibile riduzione dell’incidenza di famiglie e individui in povertà assoluta” ha scritto l’ente.
Non mi dilungherò oltre perché nell’edizione di ieri questo giornale ha – meritoriamente – dato ampio spazio al tema. Certamente la nefasta cancellazione del Reddito di cittadinanza, una contrattazione collettiva in difficoltà e lo squilibrio tra la crescita dei salari e l’aumento dei prezzi hanno inciso pesantemente sulle famiglie più svantaggiate: non a caso, lo scorso anno le spese per consumi dei nuclei meno abbienti sono calate in termini reali dell’1,5%. Anche il presidente della Repubblica Mattarella, consegnando le Stelle al merito del lavoro per l’anno 2024, ha definito il sottosalario “un elemento di preoccupante lacerazione della coesione sociale”.
Ma non c’è solo questo. Nei giorni scorsi, l’Osservatorio delle imprese dell’Università Sapienza di Roma ha pubblicato uno studio, dal titolo “Dinamica dei redditi, recenti squilibri nell’industria italiana”, che affronta il tema della bassa remunerazione del lavoro in questo settore, legato a doppio filo a quello della produttività stagnante. Analizzando il rapporto tra disaffezione imprenditoriale ed efficienza gestionale, Riccardo Gallo (uno dei curatori) ha scoperto che “nel 2023 il fatturato delle società industriali medie e grandi è stato del 34% superiore a quello del 2019. Anche il valore aggiunto è cresciuto del 33%, ma con una fortissima distorsione nella sua distribuzione. Ammortamenti, oneri finanziari e oneri fiscali hanno mantenuto più o meno il loro peso, ma la quota di valore aggiunto che ha remunerato il lavoro è calata di ben 12 punti percentuali tra il 2020 e il 2023 mentre quella dell’utile netto è aumentata di 14 punti”. Non solo: “Tra il 2020 e il 2023 – scrive Gallo -, gli azionisti delle società industriali censite dell’Area studi Mediobanca si sono distribuiti ogni anno in media l’80% degli utili, lasciando appena il 20% a disposizione della gestione come contributo all’autofinanziamento di nuovi investimenti”. Ogni commento è superfluo.