Martedì sera ho ascoltato in diretta il dibattito al senato. Alcuni interventi sono stati godibili, intensi, qualunque fosse la parte politica. L’intervento di Matteo Salvini, con il suo stile “parlato”, colloquiale, mi è sembrato efficace ma solo secondo i suoi canoni retorici rivolti al suo pubblico, mentre l’argomentare è apparso vuoto di contenuti politici. La furbata di proporre il voto sul taglio dei parlamentari per poi andare subito alle urne è, appunto, una furbata di bassa lega (se mi si passa il gioco di parole), che avrebbe effetto solo tra cinque anni e che Sergio Mattarella non potrebbe mai consentire.
Il ministro dell’Interno avrebbe potuto volare alto, trarre un bilancio complessivo e finale – secondo il suo punto di vista, ovviamente – dell’attività di 14 mesi al potere, esperienza che, per molti versi, ha segnato una rottura nella routine repubblicana, se non altro per la grande spinta al cambiamento da cui il governo era nato. E invece non ha detto nulla delle attività dell’esecutivo di cui è stato parte non minore. Ha volato rasoterra e non ha spiegato, ancora una volta, i motivi della sfiducia al governo, come se la sfiducia fosse un accadimento terzo, al pari della pioggia, del sole o della neve.
LA SINDROME DI CALIGOLA. Quanto agli altri interventi, apprezzabile quello dell’esponente del M5S, logico, tagliente e con la giusta vis polemica. Molto efficace anche Loredana De Petris, del gruppo misto. Molto sanguigno e solido l’intervento di Andrea Marcucci, capogruppo del Pd: non lo facevo così abile sul piano retorico. Di un solo intervento ho avuto un’impressione totalmente penosa: quello di Annamaria Bernini, la capogruppo di Forza Italia. Talmente superficiale che lo definirei infantile, con argomenti risibili e toni da scuola elementare (“Oggi si vedrà chi è vera opposizione e chi non è vera opposizione”… Ma che significa? Esiste la categoria della “vera opposizione”, come la categoria dei bravi o dei somari a scuola?). Uno spettacolo avvilente.
Che la parabola di Forza Italia sia alla fine, è un fatto. Ma ora capiamo bene, se non l’avessimo già capito prima, anche il perché: Berlusconi non ha mai scelto una classe dirigente meritocratica. Al contrario, ha eliminato chi aveva qualche spessore, come i Casini, i Fini, i Tremonti, e ha cooptato gente improvvisata, spesso donne e spesso prelevate da ambiti improbabili come il mondo dello spettacolo (non è il caso della Bernini): gente prescelta rigorosamente in base alla fedeltà e alla pochezza, secondo la legge per cui, se non hai il quid, sei più controllabile. Del resto, ce lo aveva spiegato lo stesso Berlusconi ai tempi della sua massima gloria, quando raccontò che qualcuno lo aveva paragonato a Caligola, l’imperatore romano che nominò senatore il suo cavallo. L’ex cavaliere commentò: “Io ho fatto di peggio: ho fatto senatori un centinaio di asini”. Non era una battuta: sapeva lucidamente di cosa parlava.