di Alessandro Ciancio
Un editoriale raffinato è meno incisivo di una vignetta riuscita. E molto più efficaci di un talk stracco e prevedibile possono essere le storie esemplari narrate da un film di successo. L’importante è che sia quello giusto, altrimenti i telespettatori non possono subirne l’opportuna influenza. Sarà per questo che, a poche ore dalla sentenza di condanna di Berlusconi, l’emittente La7 ha improvvisamente deciso di cambiare la sua programmazione: al posto di “Papillon” (storia di un condannato all’ergastolo per un omicidio mai commesso e che riesce a fuggire dalle terribili carceri della Guyana francese) è stato mandato in onda il più pertinente “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, che narra della reclusione in manicomio di un uomo colpevole di rapporti sessuali con una minorenne. Vi ricorda qualcuno?
Esercizi di ipocrisia
È anche così che in queste ore si sta consumando la partita, politica e psicologica al tempo stesso, delle reazioni alla madre di tutte le sentenze: 7 anni di carcere per concussione per costrizione e prostituzione minorile all’ex premier Silvio Berlusconi e trasmissione degli atti alla Procura per falsa testimonianza di tutti coloro che non hanno sostenuto in aula il teorema accusatorio della Procura. Appare quindi un esercizio di ipocrisia sostenere, come hanno fatto in dichiarazioni-fotocopia numerosi esponenti del Pd, che «le sentenze non si commentano ma si rispettano». Una frase che non significa proprio un bel nulla se non a far intendere che i magistrati siano ontologicamente esseri superiori e perfetti quando invece la giustizia è attività altamente fallibile, esercitata nel nome del popolo e quindi più di tante altre commentabile. Soprattutto se gli effetti delle sue sentenze si riverberano sulla stessa tenuta del governo. Tant’è vero che, assorbita la botta, si è finalmente infiammato lo scontro all’interno di una maggioranza costretta a restare tale, almeno fino a quando uno dei suoi maggiori azionisti non deciderà di staccare la spina rovesciando sull’alleato-avversario la responsabilità di tale scelta.
Stretti intorno al loro leader ferito, gli esponenti del Pdl urlano unanimi il loro sdegno (anche) per superare lo smarrimento. Lo confessava ieri con candore il coordinatore del partito Sandro Bondi: «Nessuno comprende, né Letta né Napolitano né questa sinistra, il dramma morale e politico che stiamo vivendo. Sentiamo tutti la necessità, l’imperativo morale di fare qualcosa, ma non sappiamo ancora che cosa per reagire a ciò che sentiamo come una profonda ingiustizia, come una aberrazione». Era quindi inutile che il presidente del sindacato dei magistrati, Rodolfo Sabelli, sostenesse che «noi giudici non possiamo fare scelte politiche: dobbiamo solo applicare la legge». Raccontava una favoletta dalla trama sottile, alla quale nessuno crede. «Sono dei veri e propri mascalzoni!» esclamava infatti l’ex ministro Antonio Martino riferendosi ai giudici di Milano. «Bisogna trovare un accordo politico tra le forze della maggioranza per togliere la licenza di uccidere a quei mascalzoni che sono diventati magistrati grazie a un concorso pubblico e che sono stipendiati, usando i nostri soldi, per fare solo i propri interessi». Più sottile l’attacco del presidente dei deputati Pdl Renato Brunetta, che con malcelata perfidia chiamava in causa Giorgio Napolitano: «Ho visto la sua reazione quando ingiustamente è stato sottoposto a intercettazioni. La presidenza della Repubblica ha coinvolto la Corte Costituzionale per stabilire i suoi diritti. Quando viene leso un diritto fondamentale, un diritto costituzionale, le persone, i singoli, ma anche le istituzioni, hanno il diritto-dovere di reagire. Quindi, se l’ha fatto il presidente della Repubblica, lo può fare certamente il cittadino, già presidente del consiglio, Silvio Berlusconi».
Il consiglio di Enrico Rossi
A quel punto la sinistra decideva di uscire dal suo innaturale riserbo. «Le sentenze non si devono commentare ma si possono commentare i commenti alle sentenze. Come quelli incredibili che esponenti del Pdl continuano a fare. Se c’è una corrispondenza diretta tra l’ossessione alla difesa del leader e tenuta del governo, lo si dica chiaramente e lo si spieghi agli italiani» esclamava per tutti Francesco Laforgia. «Il Pd, che nel rispetto delle regole e nel principio di legalità ha un suo tratto identitario, può stare in maggioranza con un partito guidato da un leader che ha già accumulato diverse gravissime condanne, che pretende l’impunità in nome della legittimazione elettorale e non perde occasione per attaccare la magistratura?» si chiedeva allora Rosy Bindi. «Siamo noi che teniamo in vita Berlusconi con un’apparecchiatura sofisticatissima che si chiama Governissimo delle larghe intese», le andava subito dietro Pippo Civati. «Berlusconi compia un atto di generosità, si ritiri dalla vita politica e permetta alla destra di riorganizzarsi. Così dimostrerebbe di essere un leader vero» giungeva a quel punto il consiglio disinteressato del governatore della Toscana Enrico Rossi. Il quale, come tutti i suoi compagni, sta maledicendo il giorno in cui il Pd si è dovuto alleare col nemico di sempre.