È di questi giorni l’aggressione al benzinaio di Giugliano per mano di tre giovani, probabilmente minorenni, che per estorcere il ricavato a fine giornata a un lavoratore poco più grande di loro, sono ricorsi all’uso di un’arma da fuoco (inspiegabilmente nelle loro mani) e all’uso della forza fisica di gruppo.
Non è un caso isolato e la cronaca ci restituisce con spaventosa frequenza numerosi casi analoghi che hanno come comune denominatore l’efferatezza della violenza e la giovanissima età degli esecutori, con una distribuzione sul territorio nazionale che mostra come in questo caso sia complesso tracciare una distinzione tra nord e sud. Basti pensare ai cinque accoltellamenti avvenuti a Milano per mano di giovanissimi tra sabato e domenica.
Trattasi di ragazzi prestati alla criminalità organizzata, o di giovani che si associano autonomamente? La violenza che usano è un mezzo per conseguire illecitamente dei vantaggi economo-materiali, o costruisce un fine in se? Tanti sono gli interrogativi che ci pongono i dati allarmanti divulgati dall’Osservatorio nazionale sull’adolescenza: il 6,5% dei minorenni fa parte di una banda e ben il 16% è stato protagonista di atti vandalici e, ancora, tre ragazzi su dieci hanno partecipato ad una rissa.
In più si fa largo anche in Italia, con percentuali allarmanti incrementate durante la pandemia, il fenomeno del binge drinking: una vera e propria “abbuffata alcolica” in un lasso di tempo minimo che dai paesi nordici è arrivata ad affascinare i nostri giovani, in questo caso con una prevalenza maggiore nelle regioni settentrionali, come confermano i dati. Prezioso l’apporto, in costante dialogo con le istituzioni, dell’Osservatorio Nazionale Alcol e del Centro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per la promozione della salute e la ricerca sull’alcol dell’Istituto Superiore di Sanità.
Tutte queste preoccupanti informazioni che ci giungono sul mondo dei giovani, non devono certamente indurci all’assunzione di un approccio paternalistico e retorico, ma di un punto di vista autocritico che accenda un focus sulle decisioni politiche degli ultimi anni e sulla capacità del nostro Paese di offrire ai giovani la possibilità di costruirsi un percorso che plachi la loro fame di futuro, non relegandoli in un eterno presente privo di speranze. Proprio in queste ore si è levata la loro voce nelle manifestazioni contro l’alternanza scuola-lavoro che, introdotta nel pacchetto di misure de La buona scuola renziana, ha mostrato limiti e carenze di una misura perfettibile e non accettabile così com’è.
Solo di qualche settimana fa la tragica notizia di Lorenzo, il diciottenne morto in carpenteria nell’ultimo giorno di stage a causa di un mondo del lavoro che, ignorando la sicurezza, mette a rischio lavoratori e I quei ragazzi che dovrebbero affrontare un percorso di formazione obbligatorio ma che il più delle volte cela un lavoro a tutti gli effetti, non riconosciuto e non protetto.
Ben lontano dall’esperienza educativa e pratica che dovremmo offrire loro. Alla luce di un quadro così articolato, anziché gridare alla necessità di rimpinguare le carceri minorili – in Italia ne abbiamo diciassette – occorre portare l’attenzione sul tessuto sociale che dobbiamo responsabilmente costruire affinché non vi sia la necessità di ricorrere a così drastiche sanzioni.
Con ciò non si intende delegittimare la funzione anche rieducativa che un istituito penitenziario può avere su un ragazzo in una fascia di età compresa tra i 14 e i 18 anni (prima dei quattordici non c’è imputabilità, superati i diciotto si accede alla detenzione ordinaria), ma l’urgenza di proteggere i ragazzi anche da se stessi e dai rischi fisiologici che un’età tanto delicata porta con se.