di Stefano Sansonetti
Delle due l’una. O si è iscritti all’ordine dei giornalisti, e quindi non si può fare pubblicità; oppure, se non si è iscritti, si può fare pubblicità ma non ci si può definire giornalisti. In quale posizione si trova Rula Jebreal, che ieri compariva nelle pagine interne del Corriere della Sera come super testimonial di Carpisa? E soprattutto, cosa ne pensa l’istituzione preposta al controllo? Diciamo per prima cosa che la Jebreal non risulta iscritta in nessun elenco italiano. “Di conseguenza”, ha spiegato a La Notizia Paolo Pirovano, segretario generale dell’Ordine, “può fare pubblicità”. Sarebbe sbrigativo, però, archiviare la faccenda facendo appello alla pura e semplice forma. Perché all’interno della pubblicità, che in realtà da settimane campeggia anche sul sito e sul profilo Facebook di Carpisa, la Jebreal viene sempre affiancata dalla qualifica “giornalista”. Come se l’azienda, nel porre il prodotto all’attenzione del potenziale consumatore, avesse voluto enfatizzare proprio la professione della testimonial.
LA SCELTA. Ora, nel suo sito personale la Jebreal si definisce “giornalista pluripremiata”. E in generale in diversi siti viene descritta come “giornalista israeliana”, forse facendo riferimento al fatto che è nata ad Haifa. Ma torniamo all’Ordine dei giornalisti, che a quanto pare di fronte a un caso del genere non può fare niente. “Se una persona non è iscritta a nessun elenco dell’ordine, oppure si è cancellata, può tranquillamente fare pubblicità”. E visto che la Jebreal, come conferma lo stesso Pirovano, “non risulta iscritta in nessun elenco italiano può fare da testimonial”. Soffermiamoci per ora solo su questo punto. Se è vero, come è vero, che da un punto di vista formale il caso dovrebbe ridimensionarsi, è altrettanto vero che la Jebreal ha prestato la sua immagine, con tanto di qualifica giornalistica in massima evidenza, a un messaggio commerciale dedicato (tra gli altri) al mercato italiano. Sembrerebbe allora porsi una questione di opportunità, che vede d’accordo lo stesso Pirovano. Secondo il quale sarebbe stato meglio evitare l’accostamento dell’immagine all’azienda. E se la Jebreal fosse iscritta a un Ordine dei giornalisti di uno Stato estero? Anche in quel caso, aggiunge il segretario generale, l’Ordine italiano non avrebbe competenza. Semmai, conclude Pirovano, può porsi il caso di una Jebreal che “dice di essere giornalista ma non lo è, almeno secondo gli elenchi italiani”. Ma anche qui, almeno così pare, non è che il nostro Ordine potrebbe fare granché.
ARMI SPUNTATE. A dire di Pirovano, infatti, l’esercizio abusivo della professione non è più un canale molto proficuo da far valere nelle sedi competenti. Se così fosse ci sarebbe di che preoccuparsi, visto che il titolo di giornalista a quel punto non potrebbe negarsi a nessuno. Comunque la si metta, e al di là dei profili formali, è chiaro che questa pubblicità pone un caso. Ieri La Notizia ha provato a più riprese a mettersi in contatto con la Jebreal. Ovviamente avremmo voluto chiederle della pubblicità, ma anche del suo titolo giornalistico. Purtroppo non è stato possibile raggiungerla in alcun modo. Tra le altre cose va ricordato che anche in passato ci sono stati casi di giornalisti che si sono impelagati in campagne pubblicitarie. Alcuni, messi alle strette soprattutto mediaticamente, hanno deciso di cancellarsi dall’Ordine, per poter avere più libertà d’azione, soprattutto lavorando in televisione. La risposta dell’Ordine è stato il contenuto del famoso articolo 10 del Testo unico sui doveri del giornalista, che vieta espressamente di fare pubblicità. Ma ogni tanto, come si vede, qualche maglia del Testo si rivela più larga del previsto.