Torna in libertà Pietro Genovese, il ventenne romano, figlio del regista Paolo, che la notte tra il 21 e il 22 dicembre 2019 alla guida di un Suv investì e uccise, a Roma in Corso Francia, le studentesse, Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli, entrambe 16enni (leggi l’articolo). Lo hanno disposto i giudici della Corte d’Appello di Roma. Il giovane, che era gravato della misura dell’obbligo di dimora, deve attendere ora la decisione del Tribunale di Sorveglianza che dovrà decidere su come fare scontare il residuo pena, circa 3 anni e 7 mesi.
L’8 luglio scorso (leggi l’articolo) Genovese aveva concordato, in Appello, una condanna definitiva a 5 anni e quattro mesi per omicidio stradale plurimo. In primo grado, il 19 dicembre scorso, Genovese era stato condannato in abbreviato dal gup Gaspare Sturzo a 8 anni di carcere, mentre il pm Roberto Felici ne aveva chiesti 5.
Con il concordato, accolto dalla Corte d’Appello a luglio, la pena era poi divenuta definitiva e il giovane ha potuto lasciare gli arresti domiciliari, dopo un anno e sette mesi. La Corte d’assise d’Appello aveva disposto per il giovane l’obbligo di dimora a Roma con permanenza nel proprio domicilio dalle 22 alle 7. La difesa di Genovese, rappresentata dall’avvocato Gianluca Tognozzi e Franco Coppi, aveva chiesto la libertà, ma la procura generale aveva espresso parere contrario.
La Corte aveva quindi optato per una via di mezzo, ritenendo che l’obbligo di dimora poteva soddisfare in modo adeguato “l’esigenza cautelare sociale”, tenuto conto dell’incensuratezza e del corretto comportamento processuale dell’imputato e del fatto che la patente di guida gli sia stata revocata. La Corte aveva anche revocato le statuizioni civili riguardanti le posizioni dei familiari delle vittime, perché il danno era stato risarcito dall’imputato attraverso l’assicurazione.
“La famiglia Romagnoli – affermano i familiari di Camilla tramite il legale Cesare Piraino -, ancora affranta dal dolore, preso atto con doveroso rispetto della decisione della Corte d’Appello, si augura soltanto che il Tribunale di Sorveglianza valuti con serenità, serietà e rigore l’istanza di affidamento al servizio sociale allargato che proporrà il condannato”.
Il tribunale di Sorveglianza, sottolineano ancora i famiglia della ragazza, è chiamato a valutare “il gravoso problema se il condannato, che dovrebbe espiare ancora poco meno di quattro anni di reclusione, abbia serbato un comportamento tale da consentire il giudizio che l’affidamento in prova, eventualmente da concedere, contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati”.