Giovedì scorso il “Corriere del Mezzogiorno” ha raccontato la storia di Gennaro Guarracino. Gennaro vive a Napoli e da quattro anni fa il rider per alcune delle principali piattaforme di delivery. Nel capoluogo campano ci sono oltre 2mila ciclofattorini: si tratta perlopiù di studenti che vogliono racimolare qualcosa. È la cosiddetta gig economy (l’economia dei lavoretti), un modello basato sul lavoro a chiamata. Gennaro, però, di anni ne ha cinquanta. Il turno di lavoro serale lo occupa anche nel weekend, così, spesso, sua moglie gli fa compagnia e sale in sella al motorino con lui. “Ma conosco anche tanti colleghi più giovani, che magari fanno il turno fino a mezzanotte, che portano con sé anche la fidanzata, perché altrimenti non avrebbero altro modo di passare il tempo insieme” ha raccontato l’uomo con tono romantico. Sarà.
Leggendo la sua vicenda mi è tornato in mente quanto ha scritto Colin Crouch nel 2019 nel libro “Se il lavoro si fa gig” (Il Mulino). Per il sociologo britannico, “i sostenitori della gig economy presentano la gig come una garanzia di uguale libertà tanto per le imprese piattaforma quanto per i lavoratori. Essi ne parlano come se la gig trasformasse il rapporto di lavoro in un contratto davvero paritario, scevro dalle implicazioni gerarchiche della relazione di lavoro e quindi non bisognoso di normative giuridiche a protezione dei lavoratori”. Invero, “gran parte dell’asimmetria rimane. È vero – ha fatto notare ancora Crouch -, i lavoratori gig spesso possono scegliere i loro orari di lavoro, il quando e il quanto. Tuttavia, le aziende possono decidere di accettare soltanto le prestazioni di coloro che sono disposti a lavorare per un certo numero di ore e per certi periodi della giornata. Inoltre non c’è alcun corrispettivo vantaggio, da parte del lavoratore, di quello garantito dall’azienda, che evita tutti gli oneri della parte datoriale, come versamenti pensionistici, sicurezza e congedo per maternità”.
Insomma: un grande inganno. Malgrado qualche passo avanti fatto negli ultimi anni, per i rider il quadro resta a tinte fosche. Pochi giorni fa, nel genovese, quelli di una delle più importanti società di food delivery hanno scioperato per 72 ore per protestare contro i cambiamenti unilaterali della procedura di lavoro in caso di pioggia. Non è il primo caso del genere e non sarà l’ultimo. Ma Gennaro e tantissimi altri come lui – giovani e meno giovani – hanno il diritto di godersi la famiglia, gli affetti. Di lavorare per vivere e non di vivere per lavorare. La retorica anti-fannulloni, invece, ci ha permeati in modo irreversibile. Questi sono gli amari risultati.