Gaza, 53 miliardi per la ricostruzione: il business della guerra è appena iniziato

Pioggia di miliardi sulla ricostruzione di Gaza, ma il denaro finirà nelle mani giuste o sarà solo un affare per pochi?

Gaza, 53 miliardi per la ricostruzione: il business della guerra è appena iniziato

La distruzione di Gaza ha un prezzo. Un costo umano incalcolabile, una devastazione materiale stimata in almeno 29,9 miliardi di dollari solo per i danni alle infrastrutture. Se si aggiungono le perdite economiche e sociali, la cifra schizza a 49 miliardi. Ma dietro il dramma della guerra si profila un’opportunità per molti: la ricostruzione di Gaza diventa il prossimo grande business internazionale. E tra i più entusiasti c’è persino Donald Trump, che avrebbe suggerito di trasformare la Striscia in un mega resort.

I numeri della devastazione

Il rapporto congiunto della Banca Mondiale, dell’Unione europea e delle Nazioni Unite (IRDNA – Interim Rapid Damage and Needs Assessment) fornisce un quadro chiaro della situazione. Gaza è una distesa di macerie: 1,9 milioni di persone sfollate, 47.000 morti, oltre 111.000 feriti. Il settore più colpito è quello abitativo, con danni stimati a 15,8 miliardi di dollari, seguito dal commercio e dall’industria (5,9 miliardi), dai trasporti (2,5 miliardi) e dai servizi idrici e igienico-sanitari (1,53 miliardi).

Per la ricostruzione e la ripresa economica servirebbero 53,2 miliardi di dollari, di cui almeno 20 miliardi nei primi tre anni. Questi numeri trasformano Gaza in una miniera d’oro per imprese edili, fondi di investimento e Stati pronti a spartirsi il bottino della ricostruzione.

Il grande business del dopoguerra

Dietro l’apparente necessità di ricostruire Gaza si muovono interessi economici di primo livello. Diversi Stati arabi stanno già valutando progetti infrastrutturali colossali, mentre imprese occidentali e israeliane vedono nella distruzione l’opportunità di entrare nel mercato. Tra i protagonisti della partita ci sarebbero aziende statunitensi e del Golfo, pronte a investire miliardi con il benestare della comunità internazionale.

E poi c’è l’ex presidente Usa Donald Trump, che non ha mai nascosto la sua visione della politica come un’estensione del business. Secondo indiscrezioni, avrebbe suggerito di trasformare Gaza in un’area turistica d’élite, con hotel di lusso, casinò e infrastrutture per crociere. Un’idea che suona quasi surreale nel mezzo di una tragedia umanitaria, ma che trova eco tra quegli investitori che vedono nelle macerie solo spazio edificabile.

Chi paga e chi guadagna

La ricostruzione di Gaza sarà finanziata da un mix di aiuti internazionali, prestiti e investimenti privati. Ma c’è un dettaglio cruciale: i fondi stanziati non andranno direttamente alla popolazione palestinese, bensì saranno gestiti attraverso fondi di sviluppo e organizzazioni internazionali. Questo significa che chi controllerà la distribuzione degli appalti determinerà anche chi beneficerà di questa ricostruzione.

Israele, dal canto suo, manterrà un ruolo chiave: già nel passato ha imposto restrizioni sui materiali da costruzione destinati a Gaza, favorendo imprese israeliane nella vendita di cemento, ferro e componenti edilizi. Le condizioni di sicurezza imposte da Tel Aviv potrebbero quindi trasformarsi in un ulteriore strumento di controllo economico sulla Striscia.

Il rischio di un’ennesima speculazione

A Gaza la storia si ripete. Dopo ogni guerra, il mondo si mobilita per la ricostruzione, ma i palestinesi restano prigionieri di un meccanismo che li esclude dal controllo delle risorse. Gli investitori internazionali puntano a mega-progetti che poco hanno a che fare con i bisogni immediati della popolazione, mentre l’economia locale, ridotta in macerie, non ha alcuna voce in capitolo. Del resto le guerre sono sempre così, una spartizione tra pochi sulla pelle di molti. Sia quando cadono le bombe sia quando c’è da rimettere in piedi le case.