In Sudan si combatte da quattro settimane. Tra qualche mese i sudanesi saranno i nuovi nemici di certa narrazione, accusati di compiere il gravissimo reato di scappare dalla fame e dal piombo cercando riparo in Europa. Occuparsi degli effetti e non delle cause è una specialità tutta italiana. Differire la narrazione del disastro per guadagnare tempo è la strategia di chi racconta l’immigrazione come un “fenomeno”, “un’emergenza”, una sfortunata coincidenza capitata sulle spalle del governo di turno.
La guerra civile è senza più freni. Già 300mila gli sfollati pronti a scappare dal Sudan
Cosa accade in Sudan? Dal 15 aprile il Sudan sanguina sotto i colpi di due generali e due eserciti che si affrontano a colpi di artiglieria e con combattimenti corpo a corpo. Gli scontri sono cominciati nella capitale Khartoum. Le Forze paramilitari del Supporto Rapido (Rsf) guidate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo – detto Hemedti – hanno attaccato il quartier generale dell’esercito regolare comandato dal generale Abdel Fattah al Burhan, numero uno del paese dopo il colpo di Stato del 2021.
Sia Burhan sia Hemedti sono stati uomini di fiducia dell’ex-presidente Omar al-Bashir destituito durante la rivoluzione sudanese nel 2019 dopo trent’anni di governo. Il presidente fu accusato di genocidio in merito all’annosa guerra civile nella regione del Darfur (2003-2008), in cui l’esercito sudanese si rese protagonista di un massacro etnico contro le popolazioni non musulmane. I morti furono 300mila. Il parere condiviso da molti analisti è che lo scontro sia il risultato dell’incapacità del Sudan di intraprendere un percorso di transizione dopo il golpe militare che avrebbe dovuto portarlo verso un governo civile.
La guerra, come tutte le guerre, sta portando il Paese sull’orlo del precipizio. Il generale Hemedti è il fondatore nel 2013 della milizia islamica Janjaweed (“demoni a cavallo”), tristemente nota per gli stupri, gli incendi ai villaggi e le fosse comuni nella guerra contro i ribello del Darfur. È senza dubbio l’uomo più ricco del Paese, avendo messo le mani sulla maggior parte delle miniere d’oro del Sudan, che rappresentano metà del Pil dello Stato. I suoi uomini sono segnalati, come mercenari, in conflitti recenti come quelli in Yemen e in Libia.
Il generale Abdelfatahl Burhan (che con Hemedti è stato protagonista del colpo di Stato nel 2021) ha 62 anni ed è presidente del Consiglio sovrano di Transizione. Durante il primo di governo di Abdalla Hamdok poi dimissionario, nel periodo in cui al Burhan era a capo del Consiglio Sovrano, sono state apportate importanti riforme nel paese, come la messa al bando delle mutilazioni genitali femminili nel maggio del 2020, l’abolizione della pena di morte per omosessualità, apostasia, dell’obbligo del velo e della fustigazione pubblica nel luglio 2020. La guerra è locale ma la catastrofe umanitaria è globale. L’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite conta almeno 700 morti e 300mila sfollati, anche se i dati reali potrebbero essere sensibilmente superiori.
Il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite sostiene che 19 milioni di persone – ovvero il 41% della popolazione totale, che conta 46 milioni di persone – potrebbero presto piombare nella malnutrizione se non si riuscirà a fermare il conflitto. Manca lo stretto necessario, spiega Mathilde Vu, dell’organizzazione no-profit Norwegian Refugee Aid. “È un inferno: la gente fatica ogni giorno a trovare l’acqua perché non c’è più acqua corrente, e muoversi è sempre un rischio perché si può cadere nel fuoco incrociato anche solo andando a comprare del cibo”, racconta Vu.
I prezzi nel Paese sono alle stelle, le banche sono chiuse e non erogano contanti. “Ogni singolo pezzo di vita che può esistere è ora distrutto o in pericolo, ecco perché ci sono molte persone che sono fuggite e stanno correndo verso il confine a Nord, in Egitto, o a Sud, nel Sud Sudan, o a volte nelle città vicine a Est”, dice Vu. Sadeia Alrasheed Ali Hamid, un’attivista sudanese che attualmente vive in Arabia Saudita, ha raccontato a Euronews di “corpi lasciati per strada per essere mangiati dai cani”.
“Ci sono bambini che non possono andare in ospedale, tutti hanno paura di uscire anche solo per andare a comprare cibo”, ha spiegato. I bombardamenti condotti dall’aeronautica sudanese su Khartum hanno in gran parte distrutto l’East Nile Hospital, ieri le parti in conflitto si sono reciprocamente attribuite la responsabilità di un attacco condotto alla periferia di Khartum in una chiesa copta, del quale non è chiaro il bilancio.
Tutto questo a distanza da pochi giorni dall’accordo tra l’esercito e le forze paramilitari con cui si impegnano a proteggere i civili sudanesi, a far entrare l’assistenza umanitaria, a consentire il ripristino dell’elettricità, dell’acqua e di altri servizi di base, a ritirare le forze di sicurezza dagli ospedali e a organizzare una “sepoltura rispettosa” dei morti. Ieri il generale sudanese Abdel Fattah al Burhan ha rimosso il ministro degli Interni Anan Hamed Mohammed Omar, che è anche direttore generale della polizia. In Italia il nostro ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha accennato alla guerra in Sudan in riferimento al rischio “di attivare una pericolosissima spirale sul fronte migratorio”.
Segnatevi queste sue parole perché tra poco andrà in scena lo spettacolo a cui assistiamo regolarmente: fingeranno di non saperne, metteranno in dubbio la violenza e la guerra, contesteranno la disperazione e alla fine troveranno il modo per dire che non è “un nostro problema”. Anche perché tra le molte sfortune i sudanesi hanno anche la peggiore: essere neri.