Italia, Francia e Spagna hanno appena scoperto l’acqua calda: le armi costano. E se te le compri a debito, il conto arriva con gli interessi — e con il giudizio dei mercati. Dopo mesi di retorica sulla necessità di “difendere l’Europa”, ora le capitali del Sud mettono il freno. Non per una questione etica, ma per pura contabilità.
La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha messo sul tavolo un piano da 150 miliardi in prestiti per rilanciare la difesa dell’Unione. Obiettivo: liberarsi dalla dipendenza dagli Stati Uniti e armarsi fino ai denti. Il meccanismo è semplice: si allenta temporaneamente il Patto di stabilità, gli Stati membri si indebitano, la Commissione li accompagna con denaro a basso interesse, e l’industria bellica brinda.
Un piano da falchi, in una stagione da colombe
Peccato che per Italia, Francia e Spagna, già alle prese con debiti pubblici gonfi come palloni, il piano sia un cappio. Perché quei prestiti — per quanto agevolati — finiscono comunque nel conto nazionale. E Bruxelles è chiara: se aumenti la spesa militare, dovrai tagliare da qualche altra parte. Magari dagli ospedali, dalla scuola, dai trasporti. Auguri a trovare una maggioranza che voti questo.
Meloni è stata esplicita: “Il piano di von der Leyen si basa quasi esclusivamente sul debito degli Stati”. E ha chiesto tempo. Non perché sia contraria al riarmo, ma perché non può permetterselo. Né lei né Sánchez, né tantomeno Macron, che con un debito/PIL sopra il 110% teme di far scappare gli investitori e di peggiorare il suo rating.
Il paradosso è che proprio i Paesi che più dovrebbero aumentare la spesa per raggiungere il 2% del PIL in difesa (l’obiettivo Nato) sono quelli che meno possono permetterselo. E mentre Berlino si prepara a sforare in grande stile per finanziare un pacchetto da 500 miliardi, nel Sud si gioca la partita dell’ambiguità: chiedono che nella “difesa” vengano incluse anche le spese per i confini, la cybersecurity, la resilienza infrastrutturale. Tutto pur di far quadrare i conti senza dirlo apertamente.
A Bruxelles si gioca a poker. Il Nord — Germania, Paesi Bassi, Danimarca — vuole che chi chiede solidarietà dimostri per primo di crederci, indebitandosi. “Se dicono che la difesa è una sfida esistenziale, allora che prendano i prestiti”, dicono i falchi del rigore. Ma i governi mediterranei preferiscono una partita diversa: i “defense bonds”, titoli emessi dall’Ue e garantiti da tutti, come fu per il Next Generation EU. Ovvero: mutualizzare il rischio, socializzare il costo. Ma il “no” di Amsterdam è già scolpito nella pietra: “Niente Eurobond”, ha ribadito il premier Schoof.
Il riarmo europeo si ferma davanti allo spread
Von der Leyen è in mezzo. Incalzata da Trump che minaccia di abbandonare Kiev, e frenata dai governi più fragili. Ha corso troppo, forse. Ha creduto che la retorica bellica potesse fare da leva per superare il tabù del debito. Ma le contabilità nazionali non si piegano agli slogan. E quando la guerra diventa un business, il conto lo paga sempre chi ha meno margine.
Per ora il piano è impantanato. Italia e Spagna prendono tempo, Macron guarda i mercati. Il rischio è duplice: non solo il riarmo europeo rallenta, ma l’idea stessa di una difesa comune si arena. Perché senza un’unione fiscale, ogni euro in più speso in armi può diventare un boomerang elettorale.
Nella Ue a 27, dove la difesa è ancora materia da sovranità, il vero campo di battaglia è il bilancio. E la guerra, anche quando è lontana, pesa sul debito. Ma su quello, nessuno è disposto a morire.