Il tema dell’eutanasia sta finalmente producendo in Italia una grande mobilitazione che nasce dalla presa d’atto di quanto sia opportuno abbandonare le ideologie per accogliere la concretezza della realtà. Delle volte dura, troppo dura, da poter coincidere con una vita qualificabile come degnamente vissuta.
Nessuno può stabilire in assoluto cosa sia la dignità per un’altra persona e questa deve essere rapportata alle libere declinazioni che ognuno da della propria esistenza che può, come i casi Englaro e Welby (leggi l’articolo) ci ricordano anche a distanza di tempo, tradursi in una irreversibile e atroce sofferenza. Così dopodomani, 8 ottobre, saranno depositate le firme affinché il quesito presentato alla Corte Suprema di Cassazione lo scorso aprile possa diventare nella primavera del prossimo anno il referendum abrogativo del reato di omicidio del consenziente, al fine di depenalizzare l’eutanasia.
CHIAREZZA NECESSARIA. Con la legge 217 del 2019 un piccolo e necessario passo avanti è stato compiuto con la regolamentazione delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT), il cosiddetto “testamento biologico” utile strumento contro l’accanimento terapeutico, ma molta chiarezza occorre ancora fare rispetto all’eutanasia della quale non si distinguono le forme “attiva” e “passiva” e che spesso viene confusa con il suicidio assistito.
La sospensione di trattamento è qualificata come passiva ed ha solitamente una durata maggiore coincidente con l’allungamento della sofferenza del paziente rispetto alla tipologia attiva che ha i tratti dell’immediatezza e prevede la somministrazione di un farmaco. Spesso sono le famiglie di persone affette da patologie irreversibili e degenerative che accogliendo le richieste disperate dei propri cari malati invocano la possibilità di interrompere quella straziante agonia. Ma perché una madre dovrebbe invocare la morte di un figlio malato e sofferente?
TEMA DIVISIVO. E IDEOLOGICO. Nessuno intende semplificare un così controverso argomento che nella formulazione “omicidio del consenziente” vede schierarsi orde di antagonisti alla legalizzazione di una pratica alla quale si accede attraverso percorsi non trasparenti che conducono all’estero chi ha il denaro per acquistare un diritto che dovrebbe essere universalmente riconosciuto: quello di vivere dignitosamente.
La mancata condanna di Marco Cappato che era stato accanto a Dj Fabo nel suo “suicidio assistito” (leggi l’articolo) costituisce un precedente significativo rispetto al riconoscimento della liceità della pratica, ma il cammino è ancora irto e non conta su un Parlamento all’altezza di quella che resta un’urgenti battaglia di civiltà. E in tal senso le iniziative popolari ci ricordano tristemente quanto i rappresentanti siano lontani dai rappresentati e la società corra più veloce della politica.