Sembra incredibile eppure mentre il Parlamento ha più volte rivendicato la propria centralità, dicendosi deciso a legiferare nel rispetto dei propri poteri, alla conta dei fatti continua a farsi trovare impreparato. Già perché uno dopo l’altro stanno scadendo – e in alcuni casi sono già scaduti – i tempi concessi alla politica dalla Consulta al fine di produrre alcune importanti leggi. L’ultima di queste è quella in scadenza oggi, ossia mettere mano alla legge che prevede il carcere per i giornalisti in caso di condanna per diffamazione a mezzo stampa, e per la quale al Parlamento era stato concesso un anno di tempo (leggi l’articolo).
Dodici mesi passati in fretta senza che le Camere si siano presi la responsabilità di fare quello per cui esistono, ossia legiferare, che riportano il caso nelle mani della Corte Costituzionale che dovrà prendere in mano la questione dall’esito più che scontato. Nell’udienza della Consulta, infatti, è scontato che si procederà con una sentenza d’illegittimità costituzionale per l’articolo 13 della legge sulla Stampa del 1948, quello che prevede da uno a sei anni di carcere per la diffamazione, e per l’articolo 595 del codice penale che prevede pene comprese che vanno da uno a tre anni di reclusione.
Che le cose andranno così è chiaro già dall’ordinanza firmata esattamente un anno fa dal giudice Francesco Viganò in cui si sosteneva come quelle norme che prevedevano la detenzione per i giornalisti non potessero coesistere con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Difficile spiegare l’inazione della politica su questo caso visto che proprio Marta Cartabia, all’epoca dei fatti presidente della Consulta, è colei che aveva dato un anno al Parlamento per intervenire e oggi riveste il ruolo di ministra della Giustizia.
C’è da dire che da via Arenula sono più volte giunti moniti da parte della guardasigilli che ha chiesto al Senato di intervenire ma ciò non è bastato. A rendere la vicenda ancor più grottesca c’è da considerare anche che il provvedimento non sembrava affatto complicato da scrivere perché la stessa Consulta aveva suggerito al legislatore come intervenire, indicando che le pene detentive potevano al massimo riguardare i casi in cui l’offesa alla reputazione “implichi una istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d’odio”. Nonostante ciò, in un anno è stato fatto poco o nulla.
Al momento esistono due proposte, una relativa al procedimento penale portata avanti dal forzista Giacomo Caliendo e l’altra relativa alla lite temeraria firmata dal grillino Primo Di Nicola, che – tra le proteste – sono state accorpate in quanto secondo l’Aula devono “marciare insieme”. Peccato che da quel momento, come temevano da M5S, la loro trattazione è finita nelle sabbie mobili del Senato e ora è nel limbo.
STORIA GIÀ VISTA. Contrariamente a quanto si possa pensare, questo è solo l’ultimo caso di una lunga lista di occasioni mancate o che le Camere rischiano di mancare. Nel 2019 l’inazione del Parlamento ha riguardato la legge sul fine vita (leggi l’articolo) mentre l’anno prossimo si rischia l’ennesimo smacco perché il Parlamento dovrà mettere mano alla legge sull’ergastolo ostativo, bocciato sia dalla Corte Ue che dalla Consulta (leggi l’articolo).
Sebbene il tempo per legiferare ci sia ancora, la soluzione è ancora lontana per via di quella che, sul tema della Giustizia, appare come una balcanizzazione del Parlamento. Nella maggioranza le sensibilità sono differenti e fino ad ora si è mosso il solo M5S presentando una proposta di legge e chiedendo, ormai da settimane, la sua calendarizzazione che, però, resta inspiegabilmente ferma al palo.