di Carmine Gazzanni
Tante armi, una marea di soldi, grossi affari, regole zero. E i principali gruppi bancari che, dall’alto, intascano gran parte di quel denaro. Sembrerebbe uno scenario apocalittico, a tratti derubricabile a chissà quale complottismo. E invece, molto più semplicemente, è la descrizione, sintetica, di quanto avviene, ogni anno, in Italia e, più in particolare, nel mercato militare nostrano con gli altri Paesi. Anche con quelli con cui, stando alla legge del 1990 sul “controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento”, non dovremmo commerciare.
Già, perché le regole ci sono. Peccato poi non vengano rispettate. Più di qualcosa, nel corso del tempo, non è andata come avrebbe dovuto se, dall’approvazione della legge ad oggi, le lobby militari italiane, come LaNotizia ha già avuto modo di documentare, hanno fatto affari per 54 miliardi di euro, commerciando indistintamente con tutti. Ben 123 Paesi complessivi. Anche con chi non avrebbero dovuto. Tutto, ovviamente, con l’avallo dei ministeri interessati (Difesa, Esteri, Economia) che rilasciano le necessarie autorizzazioni. E così più della metà (il 50,3%) delle esportazioni ha riguardato paesi al di fuori delle principali alleanze politico-militari dell’Italia e cioè i paesi non appartenenti all’UE o alla Nato: un dato preoccupante se si considera che – secondo l’articolo 1 della legge in questione – le esportazioni di armamenti “devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia”. Entrando più nel dettaglio, ecco che spuntano regimi come l’Arabia Saudita (3,9 miliardi), gli Emirati Arabi Uniti (3,2 miliardi), la Turchia (2,7 miliardi), l’India (1,6 miliardi). E, ancora, la Siria (16 milioni), la Libia (353 milioni), l’Algeria (quasi 1 miliardo). Ma non basta. Perchè, secondo alcuni rapporti confidenziali, Paesi come Qatar o Kuwait finanzierebbero il sedicente Stato islamico. Paesi che l’Italia ha armato. Con il Kuwait, infatti, risultano autorizzazioni per 118 milioni solo dal 2008 a oggi; per il Qatar la cifra sale: 320 milioni.
CHI CI GUADAGNA – Ma arriviamo al punto: tutte queste autorizzazioni hanno bisogno di istituti di credito che mettono a disposizione i loro conti correnti per l’accreditamento del denaro che le grandi aziende armate incassano vendendo i loro prodotti all’estero. Sono le cosiddette, eloquentemente, “banche armate”. Ed ecco, allora, che a fare affari, oltreché l’industria bellica, sono anche le grandi banche, italiane e non. Dall’ultima relazione, nella parte di cui si occupa il ministero dell’Economia, emerge che nel 2014 sono state 44 le banche accreditate per la trasmissione delle segnalazioni – pari a 8.743 – per un importo complessivo di 2.511.997.250 euro. E se la voce grossa, nel giro incredibile di soldi, la fa la Deutsche Bank per oltre 831 milioni di euro (ma stesso dicasi per la francese Bnp Paribas o per l’inglese Barclays), non sono da meno le italiane Unicredit (circa 140 milioni) e il Banco di Brescia (gruppo Ubi Banca) sui cui conti sono transitati oltre 114 milioni di euro “bellici”. Né sfigurano le banche popolari (che pure avrebbero altri fini, formalmente), come quella dell’Emilia Romagna che ha permesso, nel 2014, un giro di soldi di oltre 27 milioni. Ma facciamo un passo ulteriore e facciamo un conto di quanto le banche hanno accumulato negli ultimi anni. Dal 2008 al 2014, appunto. A spadroneggiare è, ancora una volta, la Deutsche Bank che ha firmato autorizzazioni quasi per 5 miliardi. A seguire troviamo proprio la francese Bnp (3,5 miliardi), poi la Bnl (sempre del gruppo Bnp) con autorizzazioni siglate negli ultimi 7 anni pari a circa 2 miliardi. Poco sotto spuntano le prime italiane, con Unicredit e, prima ancora, il Banco di Brescia. Incredibile? Niente affatto: nel bresciano, specie in Val Trompia, trovano sede una marea di aziende belliche, a cominciare dalla nota “Beretta”.
AUTORIZZAZIONI? MEGLIO DOPO – Ma non finisce qui. Purtroppo anche in questo caso emerge il silenzio colpevole delle istituzioni. Come denunciato da diverse associazioni, infatti, anche sulle banche i controlli sono ridotti a zero, a causa della modifica dell’articolo 27 della legge 185 del 1990 che disciplina, appunto, il controllo sui trasferimenti bancari legati a operazioni in tema di armamenti. Dopo l’emanazione di un decreto legislativo (il numero 105 del 22 giugno 2012) da parte del governo Berlusconi e il seguente decreto legge emanato poi dal governo Monti, infatti, oggi gli istituti di credito non sono più obbligati a chiedere l’autorizzazione ex ante al ministero dell’Economia. Nell’epoca dell’informatizzazione, tutto è reso più semplice: ora basta una semplice comunicazione via web delle transazioni effettuate. E il gioco è fatto: la verifica avviene soltanto dopo, a transazione ormai effettuata. Un controllo a posteriori. Il cui valore è nullo, una volta che i soldi sono stati incassati e le armi consegnate. Magari al regime in guerra. Magari al Paese in cui vige ancora la pena di morte. Magari agli Stati amici della jihad. Fa niente. Nel caso di attentati sanguinari, di guerre, di morti ammazzati, l’importante è sdegnarsi. Con le tasche stragonfie di soldi.
Tw: @CarmineGazzanni