di Andrea Koveos
Finché c’è guerra c’è speranza. Lo sanno bene i produttori di armi che non conoscono crisi. Sulla convenienza dei conflitti armati se n’è accorto da tempo anche il Ministero della Difesa italiano che potrà entrare ufficialmente nel ricco mondo delle esportazioni di armi. Questo è quello che prevede l’articolo 48 del decreto legge 69/2013, il cosiddetto decreto del fare. Il comma 1 del provvedimento dice chiaramente che il Ministero della Difesa può svolgere “attività di supporto tecnico-amministrativo ovvero contrattuale, per l’acquisizione di materiali di armamento prodotti dall’industria nazionale anche in uso alle Forze armate e per le correlate esigenze di sostegno logistico e assistenza tecnica”. Che significa? Semplice. Il dicastero di Mauro, attraverso i suoi rappresentanti militari più commercialmente intraprendenti, potrà incoraggiare “l’acquisizione di materiali di armamento” made in Italy. Sarebbe come se i dirigenti del ministero dell’agricoltura, tanto per fare un esempio, per risollevare la filiera agro alimentare, girassero il mondo con l’obiettivo si sponsorizzare la nostra pasta asciutta, ovviamente della fabbrica preferita. Non basta. L’articolo 48 dice molto di più: “i proventi derivanti dalle attività di cui al comma 1, sono versati all’entrata del bilancio dello Stato per essere integralmente riassegnati ai fondi di cui all’articolo 619” (del codice dell’ordinamento militare). In pratica gli incassi dell’attività di intermediazione di armi da fuoco dovranno essere impiegati esclusivamente per finalità militari. Dal Ministero fanno sapere che questo tipo di attività è stata sempre fatta, anche all’estero. E allora non si capisce come si cerca di normarla. Forse in passato non era proprio regolare?
Del resto sfruttare le capacità manageriali dei militari per fare cassa, rientra in una strategia complessiva inaugurata da Difesa Servizi, società al 100% del dicastero, nata qualche anno fa su iniziativa dell’allora ministro Ignazio La Russa e dell’allora sottosegretario Guido Crosetto. Da lì in poi tutto è buono per far soldi. Dallo sfruttamento economico dei marchi delle Forze Armate, all’affitto di terreni e tetti di caserme per la costruzione di impianti fotovoltaici, dallo sfruttamento commerciale dei servizi metereologici, alla valorizzazione degli immobili, passando per il business delle stazioni radio. E ora anche per l’attività, come la definisce il decreto, “tecnico-amministrativo ovvero contrattuale” della vendita delle armi. Ma i soldi, si sa, non bastano mai. L’ennesima iniezione di denaro per un ministero che non conosce né crisi finanziarie né spending review. Per i prossimi tre anni, infatti, il professor Mauro potrà beneficiare di un aumento del 5,3% del budget a sua disposizione. Stiamo parlando di 1 miliardo in più rispetto all’anno scorso; 21 miliardi in totale. Ma una cosa è il budget, altro sono le uscite. Quanti soldi l’Italia sborsa effettivamente per difendersi? Nessuno lo sa di preciso. Il ministero ha sempre sostenuto che rispetto al Pil la spesa militare ammonta allo 0.9%. Non la pensa così, però, l’istituto Sipri (Stockholm International Peace Research Institute) che sostiene invece che il nostro Paese ha speso in media nel periodo che va dal 2005 al 2009, l’1.8% del Pil. Finchè c’è guerra, dunque, c’è speranza e non ci sarà da stupirsi se i nostri militari graduati sponsorizzeranno questa o quella impresa bellica nostrana. “Vede questo proiettile verde, dottore? È perforante. Questo azzurro è dirompente, questo marrone è perforante e dirompente”, come recitava Sordi.