Il festival di Sanremo ha toccato il fondo col caso di John Travolta e il Ballo del qua qua. Proprio uno squallore infinito.
Amalia Bennati
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Gentile lettrice, non guardo Sanremo da 30 anni, non per snobismo ma solo perché mi deprime. Ormai è un cadavere: il corpo imbalsamato del santo portato in processione una volta l’anno, la ripetizione liturgica di quel che fu un fenomeno vitale nell’Italia vitale del boom economico: Modugno, Celentano, Dalla, Nada, Bobby Solo… Anni luce fa. Detto ciò, ho letto le polemiche. Non entro nel merito – cachet, pubblicità occulta –, ma ciò che vedo è il provincialismo inane di un’Italietta beota che invita un attore di fama mondiale e non ha altra idea che riderne umiliandolo (con o senza il suo consenso) facendogli ballare il Ballo del qua qua, una canzoncina sciocca per menti infantili. L’Italietta che prende ordini da Washington su con chi possiamo commerciare (Russia no, Cina no, Israele sì) e da Bruxelles su tutto il resto (Ucraina, politiche agricole, farina d’insetti). L’Italietta dove una politicante della Garbatella espugna Palazzo Chigi e vaneggia di Piani Mattei per l’Africa, azioni navali nel Mar Rosso, proiezioni di forza nel Mar della Cina, interventi nel globo terraqueo. L’ultimo scemo che fece piani di grandeur – l’impero d’Africa, spezzeremo le reni alla Grecia, invaderemo la Russia – ci portò nel burrone della Storia. John Travolta che balla il Ballo del qua qua a Sanremo è lo specchio di questa Italia provinciale, d’accatto, invecchiata e regredita, esteticamente brutta, e forse, il cielo non voglia, anche il preludio di nuove, cupe tragedie.
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