di Ginevra De Carli
L’hanno fatta passare per una rivoluzione a vantaggio dei cittadini, invece è stato un “cavallo di Troia”, dove dentro si nascondevano solo sprechi per il Sistema sanitario nazionale.
La legge
Con l’introduzione della legge 405 del 2001 è stato previsto che, per la prima volta, la distribuzione dei farmaci, avvenisse, oltre che attraverso il tradizionale canale delle farmacie, anche per mezzo delle strutture pubbliche.
La cosiddetta “distribuzione diretta”, aveva il nobile intento di affidare agli ospedali e le Asl il monitoraggio di un numero limitatissimo di farmaci.
Negli anni gli amministratori pubblici hanno intravisto in questa normativa un modo per risparmiare spostando molti farmaci, anche di uso comune, dalla distribuzione in farmacia a quella in ospedale. In realtà nemmeno la spesa farmaceutica è servita a risanare le casse pubbliche.
Bilanci poco chiari
Una parte importante dei costi è infatti mascherata nei bilanci delle aziende sanitarie dalla voce “beni e servizi”: un enorme calderone dal quale è difficile estrapolare dati certi per un singolo settore.
Nemmeno i cittadini hanno tratto beneficio da questa finta innovazione. Lo Stato li ha costretti a recarsi nelle strutture pubbliche anche per ritirare medicinali utilizzati per banali patologie, invece che usufruire dello stesso servizio offerto dalla farmacia sotto casa.
La ricerca
Secondo lo studio economico Cref, pubblicato pochi mesi fa, la distribuzione di una confezione di farmaco da parte di una Asl costa mediamente 20 euro, che si aggiungono al prezzo del medicinale.
Se lo stesso venisse venduto dalle farmacie, il risparmio sarebbe del 30%. Così le istituzioni sanitarie hanno creato un doppio canale di approvvigionamento e una forma di concorrenza atipica.
Le strutture pubbliche, infatti, da un lato si convenzionano con le farmacie sul territorio per consentire a tutti i pazienti di procurarsi i farmaci, anche nei centri più piccoli e nelle periferie più degradate, dall’altro si mettono in concorrenza con quest’ultime a condizioni commerciali molto più vantaggiose.
Viene snaturato anche il ruolo del farmacista pubblico che dovrebbe essere destinato, così come avviene ad esempio negli Stati Uniti, ad affiancare il medico del reparto in tutte le molteplici e complesse fasi di “governance” del farmaco.
Costi aggiuntivi
In questa lotta impari tra le due forme di distribuzione del medicinale, con il controllore che diventa parte attiva nel mercato, pur continuando a controllare gli altri, le strutture pubbliche si fanno carico di costi aggiuntivi non trascurabili: il costo del personale sanitario, i costi di stoccaggio in magazzino (scadenze, lotti invendibili, depositi esterni alla ASL), i costi amministrativi (verifica degli sconti, pagamento delle fatture) e soprattutto i costi sociali che ricadono sull’utenza, costretta ad accedere agli ospedali in giorni e orari prestabiliti.
Tutto questo si è tradotto in un calo della spesa farmaceutica territoriale del 10% nel solo 2012. Mentre la spesa ospedaliera ha avuto una crescita esponenziale.
Spending review
La spending review, infatti, ha stanziato più finanziamenti per le strutture pubbliche, senza introdurre un meccanismo di controllo adeguato.
Oltre il danno la beffa: i farmaci più innovativi vengono distribuiti soltanto attraverso il canale pubblico, nelle farmacie, invece, si trovano solo quelli datati con brevetto scaduto.
Viene da chiedersi come mai le aziende produttrici non applichino le stesse condizioni commerciali previste per Asl e ospedali, generando così un risparmio diretto per il cittadino.
Evidentemente la spending review non è uguale per tutti.
La soluzione potrebbe essere quella di tornare a quanto accadeva prima della legge del 2001: lasciare alle strutture pubbliche un numero ridotto di medicinali importanti, costosi e facilmente tracciabili e, ridare alla farmacia quel ruolo di presidio territoriale che per storia, tradizione e competenze le è sempre appartenuto.