Far cessare la guerra non ha colore politico. Lavorare per la fine del conflitto è prova di buonsenso. L’intervento di Giarrusso: “Ecco perché sarò in piazza”

Far cessare la guerra non ha colore politico. La pace è buonsenso. A differenza di chi attacca i 5 Stelle per volerci provare

La guerra c’è, è lì ed è anche tanto vicina a noi. Si fa sentire, incide sulla pelle viva del nostro quotidiano con le sue conseguenze nefaste, a partire dall’aumento sconsiderato dei prezzi di beni (gas e petrolio su tutti) che a loro volta influiscono sui prezzi di tutti i beni esistenti, rendendo incerto non un futuro ipotetico, non un domani remoto, ma le nostre prossime settimane, il nostro inverno, il nostro presente.

Al dramma che inspiegabilmente in molti minimizzano o peggio fingono di non vedere, si aggiunge la minaccia atomica, infernale ricatto che nel post guerra fredda nemmeno i più crudeli dittatori avevano osato agitare di fronte all’umanità intera. Oggi invece c’è anche quel ricatto, oggi torna persino l’incubo di quella cappa che negli anni ’80 velava di nero la serenità di ciascuno di noi.

In periodo di guerra, di guerra e di minaccia quotidiana, immaginare una marcia per la pace, parlarne, pensare di organizzarla non è soltanto normale, dunque, ma è utile, doveroso. E potrebbe per una volta “metter d’accordo tutti”, se questo in Italia fosse ancora nel novero delle ipotesi realizzabili. Ma evidentemente non lo è: la proposta l’ha fatta per primo Giuseppe Conte, in un’intervista al quotidiano cattolico Avvenire, parlando peraltro prudentemente di manifestazione “senza bandiere”, inclusiva e aperta.

Eppure questo basta per scatenare non solo i distinguo, non solo gli attacchi, non solo gli sberleffi, ma anche l’usuale esercito di haters sui social (ma perché mai twitter è così pieno di odio distillato in purezza?) e di giornalisti mainstream che bocciano la marcia in sfregio al proponente, commentando con sarcasmo a buon mercato le sue parole. Questo tipo di reazione scomposta e divisiva ad una proposta così sensata, non avverrebbe (non potrebbe avvenire, almeno con queste modalità) in nessun altro grande paese europeo. In Italia ahinoi è la normalità.

Allora forse dovrà arrivare quel giorno in cui si riuscirà a fare politica – battaglia politica, anche – giocando tutti nello stesso campo, quello del rispetto delle regole e dell’unità nazionale quando in ballo ci sono cose importanti come l’opporsi alla guerra e il manifestare per la pace. Perché finché questo non avverrà, finché non si condivideranno definitivamente le regole del gioco ed il perimetro del campo stesso, ci saranno forze politiche incapaci di parlare ai cittadini e persino ai propri elettori (vedi i risultati deludenti di Pd e Lega), altre che avanzeranno anche per il solo aver dimostrato buonsenso (vedi la risalita dei 5 Stelle e la vittoria di FdI), e soprattutto una parte sempre maggiore di cittadini rassegnati a disamorarsi della politica e della partecipazione attiva quotidiana, rinunciatari anche riguardo la (ri)costruzione del proprio futuro.

Un paese in cui i vertici sociali (politici, dirigenziali, informativi, culturali, gestionali) riescono a dividersi anche sulla proposta d’una marcia per la pace, ed ad allontanare così di conseguenza i cittadini dalla partecipazione, è un paese che rischia grosso, grossissimo. E non solo per le mattate di Putin o per le indegne speculazioni sui prezzi del gas. Rischia perché può perdere definitivamente la bussola, e senza bussola non ci si muove bene né in tempo di pace né in tempo di guerra. Io, chiunque organizzi, a marciare per la pace andrò, come sono sempre andato.

 

di Dino Giarrusso, Europarlamentare