Gli 83 missili che hanno devastato l’Ucraina lunedì non sono stati altro che l’antipasto della vendetta russa per l’abbattimento del ponte in Crimea. Ieri infatti la reazione del Cremlino è andata avanti con una nuova pioggia di missili che ha colpito tutte le principali città del Paese, causando numerosi blackout energetici e vittime.
La sensazione è che la Russia sia lontana dall’aver esaurito le proprie forze, con una reazione che ha sorpreso le intelligence Occidentali e ucraine, tanto che ora ha preso di mira anche simboli della società civili o cari al presidente Volodymyr Zelensky. Infatti non può essere un caso il fatto che ieri sono state riportate diverse esplosioni a Krivyj Rih, città natale del presidente, e a Pavlograd.
Attacchi a suon di missili da crociera che hanno colpito anche le città di Kremenchuk, nella regione di Poltava, Odessa e Kiev. Poi nella regione di Vinnytsia il Cremlino, evidentemente deciso a piegare i civili nel morale, ha utilizzato droni kamikaze per mettere ko la centrale termoelettrica di Ladyzhyn causando uno spaventoso blackout energetico. Ma a preoccupare sono soprattutto le esplosioni che hanno interessato Leopoli, a poche decine di chilometri dal confine con la Polonia, dove transitano le armi inviate dalla Nato all’Ucraina e in cui basta un piccolo errore per scatenare una reazione del Patto Atlantico.
Ma l’esercito ucraino, seppur fiaccato nel morale dopo due giorni di pesanti bombardamenti, non è rimasto a guardare. Malgrado l’ammonimento del Cremlino che ha ribadico che darà una “risposta dura” a qualsiasi nuovo attacco alle sue infrastrutture critiche, dopo quello al ponte di Crimea, i soldati di Zelensky hanno deciso di ricambiare il favore. Per questo hanno lanciato un raid nel sud della Russia, nella zona di Belgorod, colpendo alcune infrastrutture elettriche che hanno causato diversi blackout lasciando circa 2mila russi senza corrente.
Oggi il vertice ad Astana tra Erdogan e il presidente russo Putin. Il filo del dialogo appeso alla mediazione di Ankara
Eppure mentre l’Occidente sembra dimenticare la diplomazia e fare esclusivamente sfoggio dei muscoli, a fare da mediatore ci sta provando – ormai da mesi – il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, che dopo aver contestato l’invasione russa dell’Ucraina e i referendum con cui la Russia ha annesso mezzo Donbass, oggi vedrà Vladimir Putin ad Astana, la capitale del Kazakistan.
Si tratta del quarto incontro tra i due leader, legati da un rapporto che oscilla come un pendolo impazzito tra amicizia e rivalità, da quando è iniziato il conflitto. Dati alla mano, la Turchia ha nella Russia il suo principale partner economico da cui acquista tecnologia militare come accaduto il 30 aprile quando ha ordinato il sistema antimissilistico di ultima generazione modello S-400.
Ma il rapporto tra il Sultano e lo Zar è fatto di alti e (tanti) bassi. In diversi scenari internazionali i due sono in competizione su fronti opposti come accaduto prima in guerre per procura in Siria e Libia, poi nell’attuale conflitto in Ucraina con Ankara che fornisce all’esercito di Kiev i temibili droni Bayraktar TB2.
Ma il Sultano è lo stesso leader che nel conflitto che sta sconvolgendo il mondo, da un lato – in virtù della convenzione di Montreux – blocca le navi russe in prossimità dello stretto dei Dardanelli, impedendo loro di raggiungere il Mare Nero, e dall’altro non si unisce alle sanzioni occidentali contro Mosca. Proprio per questo le mosse del Sultano devono essere prese sempre con estrema attenzione perché sono dettate esclusivamente dalla sua volontà di mostrarsi come l’uomo che cerca la pace, accreditando sé stesso e la Turchia a livello internazionale, e per ottenere ‘permessi speciali’ per perseguire i propri obiettivi come già visto nel caso del via libera all’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato in cambio del quale ha ottenuto il via libera a perseguire i (presunti) ribelli curdi del Pkk.
Malgrado ciò, è evidente che Erdogan sia il leader che più di tutti sta facendo sforzi per arrivare a una tregua. Proprio grazie a lui sono stati organizzati già tre scambi di prigionieri tra Russia e Ucraina, è stato sbloccato il trasporto del grano bloccato nei porti di Odessa dalla flotta russa ed è stato trovato un accordo per permettere le ispezioni dell’Aiea nelle centrali nucleari danneggiate.
Certo è che malgrado le intenzioni tutt’altro che cristalline, il Sultano per lo meno sta facendo qualcosa di concreto per la pace. L’esatto opposto di Usa, Nato e Ue che, invece, proseguono su una strada muscolare e dai risultati incerti.
E non possono che preoccupare le parole del segretario del Patto Atlantico, Jens Stoltenberg, che ieri sembra aver voluto alzare ulteriormente il livello dello scontro con una serie di annunci. Il primo è stato quello che, secondo lui, Putin “sta fallendo in Ucraina. I tentativi di annessione” di alcune province, “la mobilitazione parziale” dei riservisti e la “sfrenata retorica nucleare” rappresentano “l’escalation più significativa dall’inizio della guerra” e non sono altro che “il segno che questa guerra non sta andando come previsto” da Mosca. Non solo.
Il segretario prima ha giustamente detto che “le velate minacce nucleari del presidente Putin sono pericolose e irresponsabili”, pur ammettendo di non avere “segnali del cambiamento di postura del Cremlino” che facciano pensare a un pericolo imminente, e dopo ha pensato bene di far sapere che la settimana prossima la Nato condurrà un’esercitazione della sue forze nucleari pianificata ben prima che scoppiasse la guerra in Ucraina.
Che dire? Si tratta di un tempismo invidiabile per un simile annuncio e Stoltenberg lo sa bene tanto che, a chi gli ha domandato se non fosse il caso di rinviare l’operazione, ha risposto dicendo che quello sarebbe stato “un segnale di debolezza”. Ma c’è di più. Il segretario della Nato ha anche detto che gli alleati dovranno finanziare l’acquisto di ulteriori armamenti per rimpolpare “le scorte esistenti” e per aiutare l’Ucraina, per poi ammonire il Cremlino che per far scattare l’articolo 5 sulla mutua assistenza Nato basterà anche un singolo attacco ibrido a un Paese Nato.
Un discorso che dimostra ancora una volta come l’Occidente sembra aver smarrito la via, dimenticando che soltanto la diplomazia può fermare il conflitto e salvare il mondo da un disastro che appare sempre più dietro l’angolo.